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Bartolomeo Manfredi: lo Sdegno di Marte

Lo Sdegno di Marte di Bartolomeo Manfredi (Ostiano, 25 Agosto 1582 – Roma, 12 Dicembre 1622) è un’opera importante da diversi punti di vista. In primis per le sue qualità artistiche ma anche per una sorta di centralità cronologica nel percorso del Manfredi, per la sua datazione certa e, last but not least, per il legame a filo doppio con la tela di pari soggetto di Caravaggio ormai persa.

Bartolomeo Manfredi: biografia brevissima

Riguardo alla vita dell’artista non abbiamo una documentazione vasta. Poche righe nelle Vite di Giovanni Baglione, alcune presenze negli Stati delle Anime delle parrocchie romane nelle risiedette. Forse più interessanti di tutte le numerose citazioni nell’epistolario tra Giulio Mancini e il fratello Deifebo.

Citazioni interessanti poiché Giulio Mancini (1559-1630), medico, letterato, collezionista d’arte (forse anche un po’ mercante…) conobbe bene Bartolomeo Manfredi, gli commissiono tele ed altre ne comprò.

Evidentemente la sua formazione fu settentrionale. Secondo Mancini con il bresciano Antonio Gandini. Secondo Baglione con il toscano Pomarancio, ma i tempi potrebbero essere diversi. E’ probabile che arrivo a Roma assai giovane. Nel 1596 era per certo a Mantova poiché fu fermato dai gendarmi armato fino ai denti. Nel 1603 (dunque ventunenne) negli atti del processo che il Baglione intentò contro Caravaggio troviamo citato un “Bartolomeo servitore del detto Michelangelo“. Dunque, l’intervallo temporale del suo arrivo a Roma potrebbe collocarsi tra queste due date.

Per una biografia approfondita di Bartolomeo Manfredi clicca Enciclopedia Treccani

Il Manfrediana Methodus

Joachim von Sandrart (1606–1688) fu nel quarto decennio del ‘600 il curatore della collezione dei marchesi Giustiniani. Dunque poté toccare con mano le tele del Merisi e conoscere da vicino l’opera dei suoi seguaci, i cosiddetti Caravaggeschi.

Tra questi primeggiava Manfredi tanto da rientrare tradizionalmente nella cerchia più stretta degli emuli del Merisi quali Cecco da Caravaggio e lo Spadarino. Per lui von Sandrart coniò l’espressione tedesca Manfredi Manier che descriveva l’approccio naturalistico del pittore legato ai modi del primo Caravaggio e delle sue opere di fruizione privata che raccontano vicende di vita quotidiana. Questa espressione finì per essere tradotta in latino come Manfrediana Methodus che però non rispecchia veramente il concetto originale.

Comunque, Bartolomeo Manfredi costruì un genere, peraltro assai apprezzato, che si richiamava alle prime tele di Caravaggio.

Bartolomeo Manfredi: lo Sdegno di Marte

In realtà, se preferite, l’opera può anche essere chiamata la Punizione di Amore. In inglese, visto che oggi la tela risiede presso il Art Institute of Chicago, Cupid Chastised.

Il mito è noto e quindi lo saltiamo a piè pari. Bartolomeo Manfredi dipinge una tela che certamente guarda per alcuni aspetti a Caravaggio ma che è troppo ricercata, troppo artificiosa per essere del Merisi. Marte, guerriero, è in piedi nell’atto di castigare con la frusta Amore. Venere interviene per placarlo. Amore è a terra, troppo sottomesso, troppo sensuale per essere qualcuno che sta per essere frustato a sangue…

Certamente c’è il chiaroscuro, troppo chiaro però di essere di Caravaggio del quale, invece, è ripreso il rosso. Poi c’è l’ampia voluta del mantello che avvolge Venere. Si tratta di un escamotage scenico già presente nell’arte classica. Caravaggio lo conosceva però bene, basti pensare alla Presa di Cristo nell’orto e Manfredi, giustamente, lo fa proprio.

Vorrei dire che Bartolomeo Manfredi in questa tela mostra la sua autonomia dal maestro perché, come Orazio Gentileschi, sa ricercare e trovare un suo classicismo, una sua maniera. L’esito iconografico è importante. A parte le braccia e la gamba destra di Venere, forse un po’ gonfie, la maestria tecnica di Bartolomeo Manfredi è indiscutibile.

Un’osservazione a se meritano i modelli. Venere e Marte non sono due figure idealizzate, sono invece due persone di tutti i giorni. Manfredi, come il suo maestro, li cerca nella vita quotidiana e qui li trova. Dell’importanza della modella di Venere ne riparliamo però tra un pò.

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Bartolomeo Manfredi – Marte punisce Amore, 1613

Lo Sdegno di Marte tra Caravaggio e Manfredi

Tra i motivi dell’importanza dello Sdegno di Marte di Bartolomeo Manfredi vi è il suo rapporto con la tela di pari tema del Caravaggio.

Infatti Michelangelo Merisi aveva dipinto una tela sul tema di Marte punisce Amore presente nella collezione del cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte. Il già citato Giulio Mancini era il medico del cardinale ed, all’occorrenza, anche di Caravaggio e conosceva benissimo l’opera. Tant’è che il 22 Febbraio 1613 scrive da Roma al fratello Deifebo che vive a Siena: “Il quadro del Caravaggio del Sdegnio che si è messo sotto i piedi Amore con tutte le sue armi e questo lo dovevo haver io, che stando ammalato all’interno me lo promesse, e essendo visitato dal Illustrissimo Cardinale del Monte suo Padrone glielo pigliò, dove anchor si ritrova, mirarò, se potrò, haverne copia: dubbito di no“.

Evidentemente, Mancini deve riferirsi ad un fatto di molti anni prima. Maurizio Marini, insigne studioso del Caravaggio, data il suo Marte punisce Amore al 1594. Comunque, il Merisi lascia per sempre Roma subito dopo l’uccisione di Ranuccio Tommassoni il 28 Maggio 1606. In ogni caso, Giulio Mancini non riesce ad avere l’originale e il cardinal Del Monte non gli consente neanche di trarne una copia.

Un ultimo passaggio sulle due tele. Le rappresentazioni del Merisi e del Manfredi dovevano essere completamente diverse. Maurizio Marini ne identificò una copia in una collezione fiorentina e si tratta di un tipico quadro d’ambiente di quegli anni del Caravaggio: molto lineare nella rappresentazione con due sole figure, quelle di Marte e di Amore.

Totalmente autonoma sarebbe dunque la tela di Bartolomeo e non, in alcun modo, un’opera tratta da quella del Caravaggio.

Mancini, Manfredi e il Cavalier Agostino Chigi

Evidentemente Giulio Mancini non riuscì a convincere il cardinal De Monte a fargli trarre una copia della tela e così prese un’altra strada.

La pur puntuale ricostruzione effettuata da Michele Maccherini del carteggio tra i due fratelli Mancini (che potete leggere cliccando qui “Novità su Bartolomeo Manfredi nel carteggio familiare di Giulio Mancini”) ci lascia con qualche difficoltà di ricostruzione ma un’idea possiamo farcela.

Il personaggio che conta, ai nostri fini, è il cavalier Agostino Chigi, Rettore dello Spedale di Siena di Santa Maria della Scala dal 1598 al 1639, anno della sua morte, e reggente del Governo di Siena nel 1631. Da non confondersi con l’Agostino Chigi vissuto un secolo prima ed a cui si deve Villa Farnesina.

Secondo me non si evince chiaramente dalla corrispondenza se il Chigi volesse proprio la copia del Caravaggio o volesse un quadro di medesimo soggetto. Comunque sia, alla fine, l’unica strada possibile era trovare un artista che dipingesse la sua versione di quell’evento. E così fu. Giulio Mancini, che era un ammiratore di Manfredi, propendette per quest’ultimo e lo propose ad Agostino Chigi per il tramite dei Deifebo. Infatti, l’8 Marzo 1613 Giulio scrive al fratello:

“… Quanto al servizio del Signor Cavalier Chigi, vi dissi che il Sdegnio (la copia, evidentemente) non si potrà avere ma vi è un giovan… adesso che non sarà inferiore; vi mandarò un suo quadro d’Ecce Homo e li ho dato ordin che faccia questo Sdegnio, quale se piacerà al Cavaliere bene, caso che no haverò caro che resti in casa…”.

Dunque Giulio Mancini non solo era certo delle qualità di Bartolomeo Manfredi ma aveva deciso di metterlo in collezione e, se del caso, tenersi anche lo Sdegno di Marte. Manfredi ebbe infatti un successo importante a Roma e l’8 Giugno 1623 Mancini torna sull’argomento con Deifebo: “Quel Bartolomeo che fece lo sdegnio a Messer de lo Spedale, è in tal reputazione ch’è stimato maggior di Michelangelo (Merisi) e adesso è stato venduto un quadro di suo a Sua Altezza Serenissima, nostro padrone (Cosimo II granduca di Toscana), molte centinaia di scudi. Vi serva per avviso”.

Se volete approfondire il viaggio compiuto dalla tela dalla collezione di Agostino Chigi fino all’Art Institute di Chicago, cliccate Cupid Chastised Art Institute Chicago

L’opera è compiuta

Il 12 Ottobre del 1613 Giulio Mancini scrive a Deifebo: “Ho in casa lo Sdegnio ben riuscito e condotto con bellissimo colorito e invenzione, l’intagliarà adesso il Thomassini e poi ve lo manderò, se lo vorrà il Signor Cavaliere Chigi bene, caso che non, ve lo terrete che li haverò a caro”.

Della tela Giulio Mancini ci dice anche il costo: 35 scudi che comprendono il complesso delle spese compresi i modelli. E così è chiaro che aveva visto giusto sulle potenzialità di Bartolomeo Manfredi. Infatti nell’inventario post mortem di Agostino Chigi troviamo “..un quadro con cornici di noce alto braccia dua 3/4 largo braccia dua, rappresenta un soldato che sferza (Amore) presente Venere, la quale cerca di defenderlo, opera di Bartolomeo Manfredi Milanese, scudi cento“.

Al di là di questa quotazione del 1639, il Manfredi doveva aver raggiunto in vita quotazioni ben più elevate. Infatti, il 6 Ottobre 1618, Giulio racconta a Deifebo, come il già citato Cosimo II abbia pagato tra i 300 ed i 400 scudi altre opere del pittore (la Riunione di Giocatori e il Concerto) e come lui stimi lo Sdegno di qualità e valore superiori.

La modella di Venere e la datazione delle tele manfrediane

Stabilito sulla base della corrispondenza tra i fratelli Mancini che lo Sdegno di Marte viene dipinto nel 1613, siamo in grado di collocare nel tempo anche altre sue opere.

Infatti Michele Maccherini osserva: “…mi pare si possa riconoscere la medesima ragazza in almeno altri cinque suoi quadri. La Venere che compare nello Sdegno di Marte sembra ritornare nella Zingare di collezione privata fiorentina, nell’estate delle Quattro Stagioni del Dayton Art Institute, nella figlia di Cimone, Pero, della Carità Romana della Galleria degli Uffizi e nella complice del baro nei Giocatori… Di conseguenza l’esecuzione delle cinque opere potrebbe essere avvenuta in un lasso di tempo abbastanza ravvicinato”.

 

 

Fabrizio Sciarretta

Laureato in Economia alla LUISS e Master in Business Administration della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Fabrizio Sciarretta ha dedicato i primi anni della sua attività professionale al giornalismo economico. Rientrato dagli Stati Uniti, ha operato per circa un ventennio nella consulenza di organizzazione e direzione aziendale, ricoprendo incarichi di top management in Italia per due multinazionali americane del settore. Ha poi scelto la strada dell’impresa e da alcuni anni è impegnato come imprenditore nel settore della sanità. E’ stato membro dell'esecutivo di ANISAP Lazio e consigliere d’amministrazione di reti e raggruppamenti d’imprese. Lion da sempre, è stato presidente fondatore del Lions Club Roma Quirinale. Nel 2008 ha abbandonato la Capitale in favore della Sabina, e non se ne è pentito affatto.

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