A quasi due mesi dalla conclusione della 57° esposizione internazionale d’arte di Venezia è doveroso abbozzare un piccolo bilancio finale. Sebbene le critiche a questa edizione non siano mancate, la Biennale d’arte curata da Christine Macel ha dimostrato la sua solidità organica con l’armoniosa successione degli “universi” con la quale sono stati suddivisi i padiglioni per aree tematiche.

Ognuno di essi costudisce piccoli tesori che meritano essere visti. Nominarli tutti è quasi impossibile.
Una suddivisione consequenziale che accentua ancora di più il senso di meraviglia e di scoperta: dal Padiglione degli Artisti e dei Libri fino all’ultimo, quello del Tempo e dell’Infinito, passando per il Padiglione della Terra, quello degli Sciamani e il Dionisiaco.
Il titolo di questa Biennale “Viva Arte Viva” è un gioco di parole che vuole indicare un incoraggiamento per l’arte contemporanea in questa epoca piena di sussulti, ma anche ad affermare che l’arte è sempre viva. Non è un caso che molti artisti e alcuni padiglioni abbiano lavorato sul concetto di deperimento della materia e della muffa.
Biennale di Venezia 2017: i padiglioni israeliano e italiano

Vale la pena ricordare il Padiglione Israeliano con l’artista Gal Weinstein e il Padiglione Italiano con Roberto Cuoghi e le sue imatazioni di Cristo. Tanti simulacri di Cristo in lenta decomposizione all’interno di una sorta di base spaziale su Marte.
Una trasmutazione di materiali che in qualche modo è essa stessa una rigenerazione. C’è tanto di magico in questo concetto e un eco della ricerca alchemica. Troviamo allora che “Viva Arte Viva”, segna una fine che contiene anche l’inizio.
A tutto ciò va aggiunto la componente essenziale del tempo, presente infatti con un suo padiglione.
Padiglione Germania: la dimensione tempo
La dimensione temporale spadroneggia in tutti i padiglioni, ma trova la sua massima esposizione in quello della Germania. Nel Padiglione tedesco, a cura di Susanne Pfeffer, Anne Imhof ha sviluppato un lavoro nello spazio e nel tempo rielaborando l’idea del Faust.
Un luogo completamente vuoto e dalle pareti bianchissime illuminate da luci al neon, che in realtà contiene un adattamento sculturale degli spazi. Uno scenario fisso fatto da pareti in vetro e di un pavimento rialzato realizzato anch’esso in vetro, che entra in relazione con una messa in scena performativa di oltre quattro ore. I corpi degli interpreti assieme a quello dell’artista, attraverso questa trasparenza, sono ridotti alla nuda vita nella quale vengono sovvertiti i normali piani di osservazione: sopra con il sotto, il fuori con il dentro.
La sua essenza ed essenzialità così cruda, forte e per certi versi estrema, restituisce al visitatore una sensazione potente, mettendo a nudo gli angoli più nascosti della nostra essenza. Risiede proprio in questo il segreto della vittoria del Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla Germania, rappresentata da Anne Imhof.
