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Storia dell'arte

La biografia di Giotto ne Le Vite di Giorgio Vasari

Giotto di Bondone nacque a Colle di Vespignano, oggi in comune di Vicchio nel Mugello, nel 1267. Morì a Firenze l’8 Gennaio 1337. Giorgio Vasari nelle sue Vite ne traccia una biografia accurata e fondamentale per la conoscenza del maestro. Il testo è ripreso dall’edizione del 1568.

I titoli, gli “a capo” e i “neretti” posti all’interno del testo vasariano sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura a video.

La biografia di Giotto ne Le Vite di Giorgio Vasari

Quell’obbligo stesso che hanno gli artefici pittori alla natura, la quale serve continuamente per esempio a coloro che, cavando il buono dalle parti di lei migliori e più belle, dí contraffarla ed imitarla s’ingegnano sempre; avere, per mio credere, si deve a Giotto, pittore florentino: perciocchè, essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi delle buone pitture e i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, per dono di Dio, quella che era per mala via, risuscitò ed a tale forma ridusse, che si potette chiamar buona.

I primi anni

E veramente fu miracolo grandissimo, che quella età e grossa ed inetta avesse forza d’operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gli uomini di que tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita.

E nientedimeno i principj di sì grand’uomo furono, l’anno 1276, nel contado di Firenze, vicino alla città quattordici miglia, nella villa di Vespignano, e di padre detto Bondone, lavoratore di terra e naturale persona. Costui, avuto questo figliuolo, al quale pose nome Giotto, l’allevò, secondo lo stato suo, costumatamente.

E quando fu all’età di dieci anni pervenuto, mostrando in tutti gli atti ancora fanciulleschi una vivacità e prontezza d’ingegno straordinario, che lo rendea grato non pure al padre, ma a tutti quelli ancora che nella villa e fuori lo conoscevano; gli diede Bondone in guardia alcune pecore, le quali egli andando pel podere, quando in un luogo e quando in un altro pasturando, spinto dall’inclinazione della natura all’arte del disegno, per le lastre ed in terra on su l’arena del continuo disegnava alcuna cosa di naturale, ovvero che gli venisse in fantasia.

L’incontro con Cimabue

Onde andando un giorno Cimabue per sue bisogne da Fiorenza a Vespignano, trovò Giotto che, mentre le sue pecore pascevano, sopra una lastra piana e pulita, con un sàsso un poco appuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza avere imparato modo nessuno di ciò fare da altri che dalla natura, perchè fermatosi Cimabue tutto maravíglioso, lo domandò se voleva andar a star seco.

Rispose il fanciullo, che, contentandosene il padre, anderebbe volentieri. Dimandandolo dunque Cimabue a Bondone, egli amorevolmente glie lo concedette, e si contentò che seco lo menasse a Firenze:

risuscitò la moderna e buona arte della pittura

… là dove venuto, in poco tempo, aiutato dalla natura ed ammaestrato da Cimabue, non solo pareggiò il fanciullo la maniera del maestro suo, ma divenne così buono imitatore della natura, che sbandì affatto quella goffa maniera greca, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, introducendo il ritrarre bene di naturale le persone vive: il che più di dugento anni non sera usato: e se pure si era provato qualcuno, come si è detto di sopra, non gli era ciò riuscito molto felicemente, nè così bene a un pezzo, come a Giotto.

Il quale, fra gli altri, ritrasse, come ancor oggi si vede, nella cappella del palagio del Podestà di Firenze, Dante Alighieri, coetaneo ed amico suo grandissimo, e non meno famoso poeta che si fusse nel medesimi tempi Giotto pittore; tanto lodato da messer Giovanni Boccaccio nel proemio della novella di messer Forese da Rabatta e di esso Giotto dipintore.

Nella medesima cappella è il ritratto, similmente di mano del medesimo, di ser Brunetto Latini maestro di Dante, e di messer Corso Donati gran cittadino di que’tempi.

Badia di Firenze

Furono le prime pitture di Giotto nella cappella dell’altar maggiore della Badia di Firenze; nella quale fece molte cose tenute belle, ma particolarmente una Nostra Donna quand’è annunziata; perchè in essa espresse vivamente la paura e lo spavento che nel salutarla Gabriello mise in Maria Vergine, la qual pare che tutta piena di grandìssimo timore voglia quasi mettersi, in fuga.

Di mano di Giotto parimente la tavola dell’altar maggiore di detta cappella; la quale vi si è tenuta insino a oggi ed anco vi si tiene, più per una certa reverenza che s’ha all’opera di tanto uomo, che per altro.

Per approfondire l’opera, leggete Giotto: il Polittico di Badia

giotto polittico badia
Giotto – Polittico di Badia

Santa Croce: le quattro cappelle

Ed in Santa Croce sono quattro cappelle di mano del medesimo; tre fra la sagrestìa e la cappella grande, ed una dall’altra banda.

Nella prima delle tre, la quale è di messer Ridolfo de’Bardi che è quella dove sono le funi delle campane, è la vita di San Francesco, nella morte del quale un buon numero di Prati mostrano assai acconciamente l’effetto del piangere.

Nell’altra, che è della famiglia de’Peruzzi, sono due storie della vita di San Giovan Batista, al quale è dedicata la cappella; dove si vede molto vivamente il ballare e saltare d’Erodiade, e la prontezza d’alcuni serventi presti ai servigi della mensa. Nella medesima sono due storie di San Giovanni Evangelista inaravigliose, cioè quando risuscita Drusiana, e quando è rapito in cielo.

Nella terza, ch’è de’Giugni, intitolata agli Apostoli, sono di mano di Giotto dipinte le storie del martirio di molti di loro.

Cappella Tosinghi – Spinelli

Nella quarta, che è dall’altra parte della chiesa verso tramontana, la quale è de’Tosinghi e degli Spinelli, e dedicata all’Assunzione di Nostra Donna, Giotto dipinse la Natività, lo Sposalizio, l’essere. Annunziata, l’Adorazione de’Magi e quando ella porge Cristo piccol fanciullo a Simeone, che è cosa bellissima; perchè, oltre a un grande affetto che si conosce in quel vecchio ricevente Cristo, l’atto del fanciullo, che, avendo paura di lui, porge le braccia e si rivolge tutto timorosetto verso la madre, non può essere nè più affettuoso nè più bello. Nella morte poi di essa Nostra Donna sono gli Apostoli, ed un buon numero d’Angeli, con torchi in mano, molto belli.

Cappella Baroncelli: Incoronazione della Vergine

Nella cappella de’Baroncelli, in detta chiesa è una tavola a tempera di man di Giotto, dove è condotta con molta diligenza l’incoronazione di Nostra Donna, ed un grandissimo numero di figure piccole, ed un coro di Angeli e di Santi molto diligentemente lavorati.

E perchè in questa opera è scritto a lettere d’oro il nome suo ed il millesimo, gli artefici che considereranno in che tempo Giotto, senza alcun lume della buona maniera, diede principio al buon modo di disegnare e di colorire, saranno forzati averlo in somma venerazione.

Per approfondire l’opera, leggete Giotto: Polittico Baroncelli tra regalità e musica

giotto polittico baroncelli
Giotto – Polittico Baroncelli

Nella medesima chiesa di Santa Croce sono ancora, sopra il sepolcro di marmo di Carlo Marzuppini Aretino, un Crocifisso, una Nostra Donna, un San Giovanni e la Maddalena a piò della croce; e dall’altra banda della chiesa, appunto dirimpetto a questa, sopra la sepoltura di Lionardo Aretino, è una Nunziata verso l’altar maggiore, la qual è stata da pittori moderni, con poco giudizio di chi ciò ha fatto fare, ricolorita.

Nel refettorio è, in un albero di Croce, istoria di San Lodovico, e un Cenacolo di mano del medesimo; e negli armarj della sacrestia, storie di figure picciole della vita di Cristo e di San Francesco.

La Chiesa del Carmine

Lavorò anco nella chiesa del Carmine, alla cappella di San Giovanní Batista, tutta la vita di quel Santo divisa in più quadri: e nel Palazzo della parte guelfa di Firenze è di sua mano una storia della Fede Cristiana in fresco, dipinta perfettaniente; ed in essa è il ritratto di papa Clemente IV, il quale creò quel niagistrato, donandogli l’arme sua, la qual egli ha tenuto sempre e tiene ancora.

Il viaggio ad Assisi: la Basilica Superiore

Dopo queste cose, partendosi di Firenze per andare a finir in Ascesi l’opere cominciate da Cimabue, nel passar per Arezzo, dipinse nella pieve la cappella di San Francesco, ch’è sopra il battesimo; e in una colonna tonda, vicino a un capitello corintio e antico e bellissimo, un San Francesco e un San Domenico, ritratti di naturale; e nel Duomo fuor d’Arezzo una cappelluccia, dentrovi la lapidazione di Santo Stefano, con bel componimento di figure.

Finite queste cose, si condusse in Ascesi, città dell’Umbria, essendovi chiamato da Fra Giovanni di Muro della Marca, allora generale de frati di San Francesco; dove, nella chiesa di sopra, dipinse a fresco, sotto il corridore che attraversa le finestre, dai due lati della chiesa, trentadue storie della vita e fatti di San Francesco, cioè sedici per facciata, tanto perfettamente, che ne acquistò grandissìma fama.

E nel vero, si vede in quell’opera gran varietà non solamente nei gesti ed attitudini di ciascuna figura, ma nella composizione ancora di tutte le storie; fa bellissimo vedere la diversità degli abiti di que’tempi, e certe imtazioni ed osservazioni delle cose della natura.

E fra le altre, è bellissima una storia dove uno assetato, nel quale si vede vivo il desiderio dell’acque, bee stando chinato in terra a una fonte, con grandissimo e veramente maraviglioso affetto, in tanto che par quasi una persona viva che bea. Vi sono anco molte altre cose degnissime di considerazione; nelle quali, per non esser lungo, non mi distendo altrimenti.

Basti che tutta questa opera acquistò a Giotto fama grandissima, per la bontà delle figure, e per l’ordine, proporzione, vivezza e facilità che egli aveva dalla natura, e che aveva medìante lo studio fatto molto maggiore, e sapeva in tutte le cose chiaramente dimostrare. E perchè, oltre quello che aveva Giotto da natura, fu studiosissimo, ed andò sempre nuove cose pensando e dalla natura cavando, meritò d’esser chiamato discepolo della natura, e non d’altri.

La Basilica Inferiore

Finite le sopradette storie, dipinse nel medesimo luogo, ma nella chiesa di sotto, le facciate di sopra dalle bande dell’altar maggiore, e tutti quattro gli angoli della volta di sopra, dove è il corpo di San Francesco; e tutte con invenzioni capricciose e belle.

Nella prima è San Francesco glorificato in cielo, con quelle virtù intorno che a voler esser perfettamente nella grazia dì Dio sono richieste. Da un lato, l’Ubbidienza mette al collo d’un Frate che le sta innanzi ginocchioni, un giogo, i legami del quale sono tirati da certe mani al cielo; e, mostrando con un dito alla bocca silenzio, ha gli occhi a Gesù Cristo che versa sangue dal costato. E in compagnia di questa virtù sono la Prudenza e l’Umiltà, per dimostrare che, dove è veramente l’ubbidienza, è sempre l’umiltà e la prudenza che fa bene operare ogni cosa.

Nel secondo angolo è la Castità, la quale standosi in una fortissima rócca, non si lascia vincere nè da regni nè da corone nè da palme che alcuni le presentano. A’piedi di costei è la Mondizia, che lava persone nude; e la Fortezza va conducendo genti a lavarsi e mondarsi. Appresso alla Castità è, da un lato, la Penitenza che caccia Amore alato con una disciplina, e fa fuggire la Immondizia.

Nel terzo luogo è la Povertà, la quale va coi piedi scalzi calpestando le spine: ha un cane che le abbaia dietro, e intorno un putto che le tira sassi, ed un altro che le va accostando con un bastone certe spine alle gambe. E questa Povertà si vede esser quivi sposata da San Francesco, mentre Gesù Cristo le tiene la mano, essendo presenti non senza misterio la Speranza e la Carità.

Nel quarto ed ultimo dei detti luoghi è un San Francesco, pur glorificato, vestito con una tonicella bianca da diacono, e come trionfante in cielo in mezzo a una moltitudine d’Angeli, che intorno gli fanno coro, con uno stendardo, nel quale è una croce con sette stelle; e in alto è lo Spirito Santo.

Dentro a ciascuno di questi angoli sono alcune parole latine che dichiarano le storie. Similmente, oltre i detti quattro angoli, sono nelle facciate dalle bande pitture bellissime e da essere veramente tenute in pregio, si per la perfezione che si vede in loro, e sì per essere stato con tanta diligenza lavorate, che si sono insino a oggi conservate fresche.

In queste storie è il ritratto d’esso Giotto, molto ben fatto; e sopra la porta della sagrestia è di mano del medesimo, pur a fresco, un San Francesco che riceve le stimate, tanto affettuoso e divoto, che a me pare la più eccellente pittura che Giotto facesse in quell’opere, che sono tutte veramente belle e lodevoli.

Ritorno a Firenze e tavola di San Francesco

Finito, dunque, che ebbe per ultimo il detto San Francesco, se ne tornò a Firenze: dove giunto, dipinse, per mandare a Pisa, in una tavola un San Francesco nell’orribile sasso della Vernia, con straordinaria diligenza; perchè, oltre a certi paesi pieni di alberi e di scogli, che fu cosa nuova in que’tempi, si vede nell’attitudine di San Francesco, che con molta prontezza riceve ginocchioni le stimate, un ardentíssimo desiderio di riceverle ed infinito amore verso Gesù Cristo, che in aria circondato di Serafini glie le concede, con sì vivi affetti, che meglio non è possibile immaginarsi. Nel disotto, poi, della medesima tavola sono tre storie della vita del medesimo, molto belle.

Il viaggio a Pisa

Questa tavola, la quale oggi si vede in San Francesco di Pisa, in un pilastro a canto all’altar maggiore, tenuta in molta venerazione per memoria di tanto uomo, fu cagione che i Pisani, essendosi finita appunto la fabbrica di Campo Santo, secondo il disegno di Giovanni di Niccola Pisano, come si disse di sopra, diedero a dipingere a Giotto parte delle facciate di dentro: acciocchè, come tanta fabbrica era tutta di fuori incrostata di marmi e d’intagli fatti con grandissima spesa, coperto di piombo il tetto, e dentro piena di pile e sepolture antiche, state de’gentili e recate in quella città di varie parti del mondo; così fusse ornata dentro nelle facciate di nobilissime pitture.

Il Campo Santo

Perciò, dunque, andato Giotto a Pisa, fece nel principio d’una facciata di quel Campo Santo sei storie grandi in fresco del pazientissimo Jobbe. E perchè giudiziosamente considerò che i marmi, da quella parte della fabbrica dove aveva a lavorare, erano volti verso la marina; e che tutti, essendo saligni, per gli scilocchi sempre sono umidi e gettano una certa salsedine, siccome i mattoni di Pisa fanno per lo più; e che perciò acciecano e si mangiano i colori e le pitture: fece fare, perchè si conservasse quanto potesse il più l’opera sua, per tutto dove voleva lavorare in fresco, un arricciato ovvero intonaco o incrostatura che vogliam dire; con calcina, gesso e matton pesto mescolati così a proposito, che le pitture che egli poi sopra vi fece, si sono insino a questo giorno conservate.

E meglio starebbono, se la trascurataggine di chi ne doveva aver cura non l’avesse lasciate molto offendere dall’umido; perchè il non avere a ciò, come si poteva agevolmente, provveduto, è stato cagione, che avendo quelle pitture patito umido, si sono guaste in certi luoghi, e l’incarnazioni fatte nere, e l’intonaco scortecciato: senza che la natura del gesso, quando è con la calcina mescolato, è d’infracidare col tempo e corrompersi; onde nasce che poi per forza guasta i colori, sebben pare che da principio faccia gran presa e buona.

Sono in queste storie, oltre al ritratto di messer Farinata degli Uberti, molto belle figure; e massimamente certi Villani, i quali nel portare le dolorose nuove a Iobbe, non potrebbono essere più sensati nè meglio mostrare il dolore che avevano per i perduti bestiami e per l’altre disavventure, di quello che fanno.

Parimente ha grazia stupenda la figura d’un servo, che con una rosta sta intorno a lobbe piagato, e quasi abbandonato da ognuno: e come che ben fatto sia in tutte le parti, è maraviglioso nell’attitudine che fa, cacciando con una delle mani le mosche al lebbroso padrone e puzzolente, e con l’altra, tutto schifo, turandosi il naso per non sentire il puzzo.

Benedetto IX invia un messo a Giotto

Sono, similmente, l’altre figure di queste storie, e le teste così de’maschi come delle femmine, molto belle; e i panni in modo lavorati morbidamente, che non è maraviglia se quell’opera gli acquistò in quella città e fuori tanta fama, che papa Benedetto IX da Trevisi mandasse in Toscana un suo cortigiano e vedere che uomo fusso Giotto e quali fussero l’opere sue, avendo disegnato far in San Piero alcune pitture.

Il quale cortigiano, venendo per veder Giotto, e intendere che altri maestri fussero in Firenze eccellenti nella pittura e nel musaico, parlò in Siena a molti maestri. Poi, avuto disegni da loro, venne a Firenze, e andato una mattina in bottega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del papa, e in che modo si voleva valere dell’opera sua; ed in ultimo, gli chiese un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità.

L’O di Giotto

Giotto, che garbatissimo era, prese un foglio, ed in quello, con un pennello tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso, e girato la mano, fece un tondo sì pari di sesto e di profilo, che fu a vederlo una maraviglia. Ciò fatto, ghignando disse al cortigiano: Eccovi il disegno. Colui, come beffato, disse: Ho io avere altro di segno che questo? Assai e purtroppo è questo; rispose Giotto: mandatelo insieme con gli altri, e vedrete se sarà conosciuto.

Il mandato, vedendo non potere altro avere, si partì da lui assai male sodisfatto, dubitando non essere uccellato. Tuttavia, mandando al papa gli altri disegni e i nomi di chi gli aveva fatti, mandò anco quel di Giotto, raccontando il modo che aveva tenuto nel fare il suo tondo senza muovere il braccio e senza seste. Onda il papa e molti cortigiani intendenti conobbero per ciò quanto Giotto avanzasse d’eccellenza tutti gli altri pittori del suo tempo.

Divolgatasi poi questa cosa, ne nacque il proverbio che ancora è in uso dirsi agli uomini di grossa pasta: Tu se’più tondo che l’0 di Giotto. Il qual proverbio non solo per lo caso donde nacque si può dir bello, ma molto più per lo suo significato, che consiste nell’ambiguo, pigliandosi tondo in Toscana, oltre alla figura circolare perfetta, per tardità e grossezza d’ingegno.

Viaggio di Giotto a Roma

Fecelo, dunque, il predetto papa andare a Roma; dove, onorando molto e riconoscendo la virtù di lui, gli fece nella tribuna di San Piero dipignere cinque storie della vita di Cristo, e nella sagrestia la tavola principale; che furono da lui con tanta diligenza condotte, che non uscì mai a tempera delle sue mani il più pulito lavoro: onde meritò che il papa, tenendosi ben servito, facesse dargli per premio secento ducati d’oro, oltre avergli fatto tanti favori che ne fu detto per tutta Italia.

Oderigi d’Agobbio [Oderisi da Gubbio (1240 – Roma 1299)]

Fu in questo tempo a Roma molto amico di Giotto, per non tacete cosa degna di memoria che appartenga all’arte, Oderigi d’Agobbio, eccellente miniatore in quei tempi; il quale, condotto perciò dal papa, miniò molti libri per la libreria di palazzo, che sono in gran parte oggi consumati dal tempo.

E nel mio libro de’disegni antichi sono alcune reliquie di man propria di costui, che in vero fu valente uomo: sebbene fu molto miglior maestro di lui Franco Bolognese miniatore, che per lo stesso papa e per la stessa libreria, ne’medesimi tempi, lavorò assai cose eccellentemente in quella maniera, come si può vedere nel detto libro; dove ho di sua mano disegni di pitture e di minio, e fra essi un’aquila molto ben fatta, ed un leone che rompe un albero, bellissimo. Di questi due miniatori eccellenti fa menzione Dante nell’undecimo capitolo del Purgatorio, dove si ragiona de’vanagloriosi, con questi versi:

O, dissi lui, non se’tu Oderisi,
L’onor d’Agobbio, e l’onor di quell’arto
Che alluminare è chiamata in Parisi?
Frate, diss’egli, più ridon le caxte
Che pennelleggia Franco Bolognese:
L’onor è tutto or suo, e mio in parte.

Il papa, avendo veduto queste opere, e piacendogli la maniera di. Giotto infinitamente, ordinò che facesse intorno intorno a San Piero istorie del Testamento vecchio e nuovo: onde, cominciando, fece Giotto a fresco l’Angiolo di sette braccia, che è sopra l’organo, e molte altre pitture; delle quali parte sono da altri state restaurate a’dì nostri; e parte, nel rifondare le mura nuove, o state disfatte o trasportate dall’edifizio vecchio di San Piero fin sotto Vorgano: come una Nostra Donna in muro; la quale perchè non andasse per terra, fu tagliato attorno il muro ed allacciato con travi e ferri, e così levata, e murata poi, per la sua bellezza, dove volle la pietà ed amore che porta alle cose eccellenti dell’arte messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, il quale di stucchi e d’altre moderne pitture adornò riccamente quest’opera di Giotto.

Il Mosaico della Navicella

Di mano del quale ancora fu la nave di musaico`ch’è sopra le tre porte del portico nel cortile di San Piero, la quale è veramente miracolosa e meritamente lodata da tutti i belli ingegni; perchè in essa, oltre al disegno, vi è la disposizione degli Apostoli, che in diverse maniere travagliano per la tempesta del mare, mentre soffiano i venti in una vela, la quale ha tanto rilievo che non farebbe altrettanto una vera: e pure è difficile avere a fare di que’pezzi di vetri una unione come quella che si vede nei bianchi e nell’ombre di sì gran vela, la quale col pennello, quando si facesse ogni sforzo, a fatica si pareggerebbe: senza che, in un pescatore, il quale pesca in sur uno scoglio a lenza, si conosce nell’attitudine una pazienza estrema propria di quell’arte, e nel volto la speranza e la voglia di pigliare. Sotto quest’opera sono tre archetti in fresco; de’quali, essendo per la maggior parte guasti, non dirò altro. Le lodi, dunque, date universalmente dagli artefici a questa opera, se le convengono.

Per approfondire l’opera, leggete Mosaico della Navicella: Giotto in chiave barocca

mosaico della navicella giotto basilica di san pietro
Giotto – Mosaico della Navicella

Avendo poi Giotto nella Minerva, chiesa de’Frati Predicatori, dipinto in una tavola un Crocifisso grande, colorito a tempera, che fu allora molto lodato; se ne tornò, essendone stato fuori sei anni, alla patria.

Con Clemente V ad Avignone

Ma essendo, non molto dopo, creato papa Clemente V in Perugia, per essere morto papa Benedetto IX, fu forzato Giotto andarsene, con quel papa, là dove condusse la corte, in Avignone, per farvi alcune opere: perchè, andato, fece, non solo in Avignone, ma in molti altri luoghi di Francia, molte tavole e pitture a fresco bellissime, le quali piacquero infinitamente al pontefice e a tutta la corte. ` Laonde, spedito che fu, lo licenziò amorevolmente e con molti doni; onde so ne tornò a casa non meno ricco che onorato e famoso; e, fra l’altre cose, recò il ritratto di quel papa, il quale diede poi a Taddeo Gaddi suo discepolo: e questa tornata di Giotto in Firenze fu l’anno 1316.

La Cappella degli Scrovegni

Ma non però gli fu conceduto fermarsi molto in Firenze; perchè, condotto a Padoa per’opera de signori della Scala, dipinse nel Santo, chiesa stata fabbricata in que’tempi, una cappella bellissima.

Di lì andò a Verona, dove a messer Cane fece nel suo palazzo alcune pitture, e particolarmente il ritratto di quel signore; e ne Frati di San Francesco una tavola. Compiute queste opere, nel tornarsene in Toscana gli fu forza fermarsi in Ferrara, e dipignere in servigio di que’signori Estensi, in palazzo ed in Sant’Agostino, alcune cose che ancor oggi vi si veggiono.

Ulteriori viaggi e opere

Intanto, venendo agli orecchi di Dante, poeta fiorentino, che Giotto era in Ferrara, operò di maniera che lo condusse a Ravenna, dove egli si stava in esilio; e gli fece fare in San Francesco per i signori da Polenta alcune storie in fresco intorno alla chiesa, che sono ragionevoli.

Andato poi da Ravenna a Urbino, ancor quivi lavorò alcune cose. Poi, occorrendogli passar per Arezzo, non potette non compiacere Piero Saccone, che molto l’aveva carezzato; onde gli fece in un pilastro della cappella maggiore del vescovado, in fresco, un San Martino, che, tagliatosi il mantello nel mezzo, ne dà una parte a un povero che gli è innanzi quasi tutto ignudo.

Avendo poi fatto nella Badia di Santa Fiore, in legno, un Crocifisso grande a tempera, che è oggi nel mezzo di quella chiesa, se ne ritornò finalmente in Firenze; dove, fra l’altre cose, che furono molte, fece nel monasterio delle Donne di Faenza alcune pitture ed in fresco ed a tempera, che oggi non sono in essere, per esser rovinato quel monasterio.

Similmente, l‘anno 1322, essendo l’anno innanzi, con suo molto dispiacere, morto Dante suo amicissimo, andò a Lucca; ed, a richiesta di Castruccio, signore allora di quella città sua patria, fece una tavola in San Martino, dentrovi un Cristo in aria, e quattro Santi protettori di quella città; cioè San Piero, San Regolo, San Martino e San Paulino, i quali mostrano di raccomandare un papa ed un imperadore; i quali, secondo che per molti si crede, sono Federigo Bavaro e Niccola V antipapa.

Credono parimente alcuni, che Giotto disegnasse a San Frediano, nella medesima città di Lucca, il Castello e Fortezza della Giusta, che è inespugnabile.

Viaggio a Napoli

Dopo, essendo Giotto ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calabria suo primogenito, il quale si trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto a Napoli; perciocchè, avendo finito di fabbricare Santa Chiara, monasterio di donne e chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata.

Giotto, adunque, sentendosi da un re tanto lodato e famoso chiamare, andò più che volentieri a servirlo; e giunto,’ dipinse in alcune cappelle del detto monasterio molte storie del vecchio Testamento e nuovo. E le storie dell’Apocalisse, che fece in dette cappelle, furono (per quanto si dice) invenzione di Dante; come per avventura furono quelle tanto lodate d’Ascesi, delle quali si è di sopra abbastanza favellato: e, sebbene Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gli amici, ragionamento.

Ma per tornare a Napoli, fece Giotto nel castello dell’Uovo molte opere, e particolarmente la cappella, che molto piacque a quel re: dal quale fu tanto amato, che Giotto molte volte, lavorando, si trovò essere trattenuto da esso re, che si pigliava piacere vederlo lavorare e d’udire i suoi ragionamenti; e Giotto, che aveva sempre qualche motto alle mani e qualche risposta arguta in pronto, lo tratteneva con la mano dipignendo, e con ragionamenti piacevoli motteggiando.

Onde, dicendogli un giorno il re, che voleva farlo il primo uomo di Napoli, rispose Giotto: e perciò sono io alloggiato a porta Reale, per essere il primo di Napoli. Un’altra volta, dicendogli il re: Giotto, se io fussi in te, ora che fa caldo, tralascerei un poco il dipingere; rispose: ed io certo, s’io fussi voi.

Essendo, dunque, al re molto grato, gli fece in una sala, che il re Alfonso I rovinò per fare il castello, e così nell’Incoronata, buon numero di pitture; e fra l’altre della detta sala, vi erano i ritratti di molti uomini famosi, e fra essi quello di esso Giotto: al quale avendo un giorno, per capriccio, chiesto il re che gli dipingesse il suo reame, Giotto (secondo che si dice) gli dipinse un asino imbastato, che teneva ai piedi un altro basto nuovo e, fiutandolo, facea sembianza di desiderarlo; ed in su l’uno e l’altro basto nuovo era la corona reale e lo scettro della podestà: onde, dimandato Giotto dal re, quello che cotale pittura significasse, rispose, tale i sudditi suoi essere e tale il regno, nel quaìe ogni giorno nuovo signore si desidera.

Viaggio a Rimini

Partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si fermò a Gaeta; dove gli fu forza, nella Nunziata, far di pittura alcune storie del Testamento nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non però in modo, che non vi si veggia benissimo il ritratto d’esso Giotto appresso a un Crocifisso grande, molto bello.

Finita quest’opera, non potendo ciò negare al signor Malatesta, prima si trattenne per servigio di lui alcuni giorni in Rorna, e di poi se n’andò a Rimini, della qual città era il detto Malatesta signore; e lì, nella chiesa di San Francesco, fece moltissime pitture: le quali poi da Gismondo, figliuolo di Pandolfo Malatesti, che rifece tutta la detta chiesa di nuovo, furono gettate per terra e rovinate.

Per approfondire la Scuola Giottesca di Rimini, leggete Pomposa: i giotteschi del Refettorio

Anche le Marche recepirono fortemente l’influenza di Giotto. Potete leggere da Giotto a Gentile pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento

abbazia pomposa affreschi refettorio giotto
Abbazia di Pomposa – Affreschi del Refettorio

Storia della Beata Michelina

Fece ancora nel chiostro di detto luogo all’incontro della facciata della chiesa, in fresco, l’istoria della Beata Michelina; che fu una delle più belle ed eccellenti cose che Giotto facesse giammai, per le molte e belle considerazioni che egli ebbe nel lavorarla: perchè, oltre alla bellezza de’panni, e la grazia e vivezza delle teste, che sono miracolose, vi è, quanto può donna esser bella, una giovane, la quale, per liberarsi dalla calunnia dell’adulterio, giura sopra un libro in atto stupendissimo, tenendo fissi gli occhi suoi in quelli del marito, che giurare le facea per diffidenza d’un figliuolo nero partorito da lei, il quale in nessun modo poteva acconciarsi a credere che fusse suo.

Costei, siccome il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso, fa conoscere, con la pietà della fronte e degli occhi, a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenza e semplicità sua, ed il torto che se le fa, facendola giurare e pubblicandola a torto per meretrice. Medesimamente, grandissimo affetto fu quello ch’egli espresse in un infermo di certe piaghe; perchè tutte le femmine che gli sono intorno, offese dal puzzo, fanno certi storcimenti schifi, i più graziati del mondo.

Gli scorti, poi, che in un altro quadro si veggiono fra una quantità di poveri rattratti, sono molto lodevoli, e deono essere appresso gli artefici in pregio, perchè da essi si è avuto il primo principio e modo di farli; senza che non si può dire che siano, come primi, so non ragionevoli. Ma, sopra tutto l’altre cose che sono in questa opera, è meravigliosissimo l’atto che fa la sopraddetta Beata verso certi usurai, che le sborsano i danari della vendita delle sue possessioni per dargli a’poveri; perchè in lei si dimostra il dispregio de’danari e delle altre cose terrene, le quali pare che le putano; ed in quelli il ritratto stesso dell’avari ia e ingordigia umana.

Parimente, la figura d’uno che, annoverandole i danari, pare che accenni al notaio che scriva, è molto bella; considerato, che sebbene ha gli occhi al notaio, tenendo nondimeno le mani sopra i danari, fa conoscere l’affezione, l’avarizia sua e la diffidenza. Similmente, le tre figure che in aria sostengono l’abito di San Francesco, figurate per l’Ubbidienza, Pacienza e Povertà, sono degne d’infinita lode; per essere, massimamente nella maniera de’panni un naturale andar di pieghe, che fa conoscere che Giotto nacque per dar luce alla pittura.

Ritrasse, oltre ciò, tanto naturale il signor Malatesta in una nave di questa opera, che pare vivissimo; ed alcuni marinari ed altre genti, nella prontezza, nell’affetto e nell’attitudini; e particolarmente una figura che, parlando con alcuni e mettendosi una mano al viso, sputa in mare, fa conoscere l’eccellenza di Giotto. E certamente, fra tutte le cose di pittura fatto da questo maestro, questa si può dire che sia una delle migliori; perché non è figura in si gran numero, che non abbia in sè grandissimo artifizio e che non sia posta con capricciosa attitudine. E però non è maraviglia, se non mancò il signor Malatesta di premiarlo magnificamente e lodarlo.

Finiti i lavori di quel signore, fece, pregato da un priore fiorentino che allora era in San Cataldo d’Arimini, fuor della porta della chiesa, un San Tommaso d’Aquino che legge e suoi Frati. Di quivi partito, tornò a Ravenna, ed in San Giovanni Evangelista fece. una cappella a fresco lodata molto.

Ritorno a Firenze

Essendo poi tornato a Firenze con grandissimo onore e con buone facultà, fece in San Marco, a tempera, un Crocifisso in legno, maggìore che il naturale, e in campo. d’oro; il quale fu messo a man destra in chiesa: ed un altro simile ne fece in Santa Maria Novella, in sul quale Puccio Capanna. suo creato, lavorò in sua compagnia; e questè ancor oggi sulla porta maggiore, nell’entrare in chiesa a man destra, sopra la sepoltura de’Gaddi. E nella medesima chiesa fece, sopra il tramezzo, un San Lodovico a Paolo di Lotto Ardinghelli, e a’piedi il ritratto di lui e della moglie di naturale.

Sepolcro di Guido Tarlati

L’anno poi 1327, essendo Guido Tarlati da Pietramala, vescovo e signore d’Arezzo, morto a Massa di Mare a nel tornare da Lucca, dove era stato a visitare l’imperadore; poichè fu portato in Arezzo il suo corpo, e lì ebbe avuta l’onoranza del mortorio onoratissima; deliberarono Piero Saccone e Dolfo da Pietramala, fratello del vescovo, che gli fosse fatto un sepolcro di marmo, degno della grandezza di tanto uomo, stato signore spirituale e temporale, e capo di parte ghibellina in Toscana.

Perchè, scritto a Giotto che facesse il disegno d’una sepoltura ricchissima, e quanto più si potesse onorata, e mandatogli le misure; lo pregarono appresso, che mettesse loro per le mani uno scultore il più eccellente, secondo il parer suo, di quanti ne erano in Italia, perchè si rimettevano di tutto al giudizio di lui.

Giotto, che cortese era, fece il disegno e lo mandò loro; e secondo quello, come al suo luogo si dirà, fu fatta la detta sepoltura. E perchè il detto Piero Saccone amava infinitamente la virtù di questo uomo; avendo preso, non molto dopo che ebbe avuto il detto disegno, il Borgo a San Sepolcro, di là condusse in Arezzo una tavola di man di Giotto, di figure piccole, che poì se n’è, ita in pezzi: e Baccio Gondi, gentiluomo fiorentino, amatore di queste nobili arti e di tutte le virtù, essendo commissario d’Arezzo, ricercò con gran diligenza i pezzi di questa távola; e trovatone alcuni, li condusse a Firenze, dove li tiene in gran venerazione, insieme con alcune altre cose che ha di mano del medesimo Giotto: il quale lavorò tante cose, che raccontandole, non si crederebbe.

Eremo di Camaldoli

E non sono molti anni, che trovandomi io all’eremo di Camaldoli, dove ho molte cose lavorato a que’reverendi Padri, vidi in una cella (e vi era, stato portato dal molto reverendo Don Antonio da Pisa allora generale della congregazione di Camaldoli) un Crocifisso piccolo in campo d’oro, e col nome di Giotto di sua mano, molto bello: il quale Crocifisso si tiene oggi, secondo che mi dice il reverendo Don Silvano Razzi monaco camaldolense, nel monasterio degli Angeli dì Firenze, nella cella del maggiore, come cosa rarissima, per essere di mano di Giotto, ed in compagnia d’un bellissimo quadretto di mano di Raffaello da Urbino.

La Maestà d’Ognissanti

Dipinse Giotto a’Frati Umiliati d’Ognissanti di Firenze una cappella e quattro tavole; e fra l’altre, in una la Nostra Donna con molti Angeli intorno e col Figliuolo in braccio, ed un Crocifisso grande in legno: dal quale Puccio Capanna pigliando il disegno, ne lavorò poi molti per tutta Italia, avendo molto in pratica la maniera di Giotto. Nel tramezzo di detta chiesa era, quando questo libro delle Vite dei Pittori, Scultori e Architetti si stampò la prima volta, una tavolina a tempera, stata dipinta da Giotto con infinita diligenza; dentro la quale era la morte di Nostra Donna con gli Apostoli intorno, e con un Cristo che in braccio l’anima di lei riceveva.

Questa opera dagli artefici pittori era molto lodata, e particolarmente da Michelagnolo Buonarroti; il quale affermava, come si disse altra volta; la proprietà di questa istoria dipinta non potere essere più simile al vero di quello ch’ell’eraQuesta tavoletta, dico, essendo venuta in considerazione, da che si diede fuora la prima volta il libro di queste Vite, è stata poi levata via da chi che sia, che, forse per amor dell’arte e per pietà, parendogli che fusse poco stìmata, si è fatto, come disse il nostro poeta, spietato. E veramente, fu in que’tempi un miracolo, che Giotto avesse tanta vaghezza nel dipingere, considerando massimamente che egli imparò l’arte in un certo modo senza maestro.

Per approfondire l’opera, leggete Giotto: la Maestà d’Ognissanti

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Giotto – Maestà di Ognissanti

Il Campanile di Santa Maria in Fiore

Dopo queste cose, mise mano, l’anno 1334 a dì 9 di luglio, al campanile di Santa Maria del Fiore: il fondamento del quale fu, essendo stato cavato venti braccia a dentro, una platea di pietre forti, in quella parte donde si era cavata acqua e ghiaia; sopra la quale platea, fatto poi un buon getto, che venne alto dodici braccia dal primo fondamento, fece fare il rimanente, cioè l’altre otto braccia di muro a mano.

E a questo principio e fondamento intervenne il vescovo della città, il quale, presente tutto il clero e tutti i magistrati, mise solennemente la prima pietra. Continuandosi poi questa opera col detto modello, che fu di quella maniera tedesca che in quel tempo s’usava, disegnò Giotto tutte le storie che andavano nell’ornamento, e scomparti di colori bianchi, neri e rossi il modello in tutti que’luoghi, dove avevano a andare le pietre e i fregi, con molta diligenza.

Fu il circuito da basso, in giro, largo braccia cento, cioè braccia venticinque per ciascuna faccia; e l’altezza braccia cento quaranta quattro. E se è vero, che tengo per verissimo, quello che lasciò scritto Lorenzo di Cione Ghiberti; fece Giotto non solo il modello di questo campanile, ma di scultura ancora e di rilievo parte di quelle storie di marmo, dove sono i principii di tutte l’arti.

E Lorenzo detto afferma aver veduto modelli di rilievo di man di Giotto, e particolarmente quelli di queste opere: la qual cosa si può credere agevolmente, essendo il disegno e l’invenzione il padre e la madre di tutto quest’arti, e non d’una sola. Doveva questo campanile, secondo il modello di Giotto, avere per finimento sopra quello che si vede, una punta ovvero piramide quadra alta braccia cinquanta; ma, per essere cosa tedesca e di maniera vecchia, gli architettori moderni non hanno mai se non consigliato che non si faccia, parendo che stia meglio così.

Per le quali tutte cose fu Giotto non pure fatto cittadino fiorentino, ma provvisionato di cento fiorini d’oro l’anno dal Comune di Firenze, ch’era in que tempi gran cosa; e fatto provveditore sopra questa opera, che fu seguitata dopo lui da Taddeo Gaddi, non essendo egli tanto vivuto che la potesse vedere finita.

Ora, mentre che quest’opera si andava tirando innanzi, fece alle monache di San Giorgio una tavola; e nella Badia di Firenze, in un arco sopra la porta di dentro la chiesa, tre mezze figure. oggi coperte di bianco per illuminare la chiesa. E nella

sala grande del podestà di Firenze dipinse il Comune rubato da molti: dove, in forma di giudice con lo scettro in mano, lo figurò a sedere, e sopra la testa gli pose le bilance pari per le giuste ragioni ministrate da esso; aiutato da quattro virtù, che sono la Fortezza con l’animo, la Prudenza con le leggi, la Giustizia con l’armi, e la Temperanza con le parole: pittura bella, ed invenzione propria e verisimile.

Morte e sepoltura

Appresso, andato di nuovo a Padoa, oltre a molte altre cose e cappelle ch’egli vi dipinse, fece nel luogo dell’Arena una Gloria mondana, che gli arrecò molto onore e utìle. Lavorò anco in Milano alcune cose, che sono sparse per quella città, e che insino a oggi sono tenute bellissime. Finalmente, tornato da Milano, non passò molto che, avendo in vita fatto tante e tanto belle opere, ed essendo stato non meno buon cristiano che eccellente pittore, rendè l’anima a Dio l’anno 1336, con molto dispiacere di tutti i suoi cittadini, anzi di tutti coloro che non pure l’avevano conosciuto, ma udito nominare; e fa seppellito, siccome le sue virtù meritavano, onoratamente, essendo stato in vita amato da ognuno, e particolarmente dagli uomini eccellenti in tutte le professioni: perchè, oltre a Dante, di cui avemo di sopra favellato, fu molto onorato dal Petrarca, egli e l’opere sue; intanto che si legge nel testamento suo, ch’egli lascia al signor Francesco da Carrara, signor di Padoa, fra altre cose da lui tenute in somma venerazione, un quadro di man di Giotto, dentrovi una Nostra Donna, come cosa rara e stata a lui gratissima. E le parole di quel capitolo del testamento dicono cosi:

Petrarca e Giotto

Transeo ad dispositionem aliarum rerum; et prcedicto igitur domino meo Paduano, quia el ipse per Dei gratiam non eget, et ego nihiI aliud habeo dignum, se, mitto labulam meam sive historiam Beatae Virginis Mariae, opus Jocti pictoris egregii, quae mihi ab amico meo Michaële Vannis de Florentia missa est, in cujus pulchitudinem ignorantes non inteIIigunt, magistri autem artis stupent: hanc iconem ipsi domino lego, ut ipsa Virge benedicta sibi sit propitia apud filium suum Jesum Christum etc.

Ed il medesimo Petrarca, in una sua pistola latina nel quinto libro delle Familiari, dice queste parole: Atque (ut a veteribus ad nova, ab externis ad nostra transgrediar) duos ego novi pictores egregios, nec formosos, Joctum Florentinum civem, cijus inter modernos fama ingens est, et Simonem Senensem. Novi scultores aliquot etc. 

Fu sotterrato in Santa Maria del Fiore, dalla banda sinistra entrando in chiesa, dove è un matton di marmo bianco per memoria di tanto uomo. E, come si disse nella Vita di Cimabue, un comentator di Dante, che fu nel tempo che Giotto viveva, disse: “Fu ed è Giotto tra i pittori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Firenze, a Padova e in molte altre parti del mondo”.

I discepoli: Taddeo Gaddi e Puccio Capanna

I discepoli suoi furono Taddeo Gaddi, stato tenuto da lui a battesimo, come s’è detto; e Puccio Capanna fiorentino, che in Rimini, nella chiesa di San Cataldo dei Frati Predicatori, dipinse perfettamente in fresco un voto d’una nave che pare che affoghi nel mare, con uomini che gettano robe nell’acqua; de’quali è uno esso Puccio ritratto di naturale, fra un buon numero di marinari. Dipinse il medesimo in Ascesi nella chiesa di San Francesco molte opere dopo la morte di Giotto: ed in Fiorenza, nella chiesa di Santa Trinita, fece allato alla porta di fianco, verso il fiume, la cappella degli Strozzi, dove è in fresco la Coronazione della Madonna, con un coro d’Angeli, che tirano assai alla maniera di Giotto; e dalle bande sono storie di Santa Lucia, molto ben lavorate.

Nella Badia di Firenze dipinse la cappella di San Giovanni Evangelista, della famiglia de’ Covoni, allato alla sagrestia; ed in Pistoia fece a fresco la cappella maggiore della chiesa di San Francesco, e la cappella di San Lodovico con le storie loro, che sono ragionevoli. Nel mezzo della chiesa di San Domenico della medesima città è un Crocifisso, una Madonna e un San Giovanni, con molta dolcezza lavorati; e ai piedi un’ossatura di morto intera; nella quale, che fa cosa inusitata in que’tempi, mostrò Puccio aver tentato di vedere i fondamenti dell’arte. In quest’opera si legge il suo nome, fatto da lui stesso, in questo modo: Puccio di Fiorenza me fece.

È di sua mano ancora in detta chiesa, sopra la porta di Santa Maria Nuova, nell’arco, tre mezze figure; la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, e San Piero da una banda, e dall’altra San Francesco. Dipinse ancora nella già detta città d‘Ascesi, nella chiesa di sotto di San Francesco, alcune storie della passione di Gesù Cristo in fresco, con buona pratica e molto risoluta; e nella cappella della chiesa di Santa Maria degli Angoli, lavorata a fresco, un Cristo in gloria, con la Vergine che lo priega pel popolo cristiano: la quale opera, che è assai buona, è tutta affumicata dalle lampane e dalla cera che in gran copia vi si arde continuamente.

E di vero, per quello che si ‘ può giudicare, avendo Puccio la maniera e tutto il modo di fare di Giotto suo maestro, egli se ne seppe servire assai nell’opere che fece; ancorchè, come, vogliono alcuni, egli non vivesse molto, essendosi infermato e morto per troppo lavorare in fresco di sua mano, per quello che si conosce, nella medesima chiesa la cappella di San Martino, e le storie di quel Santo lavorate in fresco per lo cardinal Gentile. Vedesi ancora, a mezza la strada nominata Portica, un Cristo alla colonna; ed in un quadro, la Nostra Donna, e Santa Caterina e Santa Chiara che la mettono in mezzo. Sono sparte in molti altri luoghi opere di costui: come, in Bologna, una tavola nel tramezzo della chiesa,’ con la passion di Cristo, e storie di San Francesco; e, insomma, altre che si lasciano per brevità. Dirò bene, che in Ascesi, dove sono il più dell’opere sue, e dove mi pare che egli aiutasse a Giotto a dipignere, ho trovato che lo tengono per loro cittadino, e che ancora oggi sono in quella città alcuni della famiglia de’Capanni. Onde facilmente si può credere che nascesse in Firenze, avendolo scritto egli, e che fusse discepolo di Giotto; ma che poi togliesse moglie in Ascesi, che quivi avesse figliuoli, e ora vi siano discendenti. Ma perchè ciò sapere appunto non importa più che tanto, basta che egli fu buon maestro.

Ottavino e Pace da Faenza

Fu similmente discepolo di Giotto, e molto pratico dipintore, Ottaviano da Faenza, che in San Giorgio di Ferrara, luogo de monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose; ed in Faenza, dove egli visse e morì, dipinse nell’arco sopra la porta di San Francesco una Nostra Donna, e San Piero e San Paolo; e molte altre cose in detta sua patria ed in Bologna.

Fu anche discepolo di Giotto Pace da Faenza, che stette seco assai e l’aiutò in molte cose: ed in Bologna sono di sua mano, nella facciata di fuori di San Giovanni decollato, alcune storie in fresco.

Fu questo Pace valentuomo, ma particolarmente in fare figure piccole: come si può insino a oggi veder nella chiesa di San Francesco di Forri, in un albero di Croce, e in una tavoletta a tempera, dove è la vita di Cristo e quattro storietto della vita di Nostra Donna; che tutte sono moltá ben lavorate. Dicesi che costui lavorò in Ascesi in fresco, nella cappella di Sant’Antonio, alcune istorie della vita di quel Santo, per un duca di Spoleti ch’è sotterrato in quel luogo con un suo figliuolo; essendo stati morti in certi sobborghi d’Ascesi combattendo, secondo che si vede in una lunga inserizione che è nella cassa del detto sepolcro.

Nel vecchio libro della Compagnia de’dipintori si trova essere stato discepolo del medesimo. un Francesco detto di maestro Giotto; del quale non so altro ragionare.

Guglielmo da Forlì

Guglielmo da Forlì fu anch’egli discepolo di Giotto; ed oltre a molte altre opere, fece in San Domenico di Forlì sua patria la cappella dell’altar maggiore. Furono anco discepoli di Giotto, Pietro Laureati, Simon Memmi sanesi, Stefano fiorentino, e Pietro Cavallini romano. Ma perchè di tutti questi si ragiona nella Vita di ciascun di loro; basti in questo luogo aver detto che furono discepoli di Giotto: il quale disegnò molto bene nel suo tempo, e di quella maniera; come ne fanno fede molte cartepecore disegnate di sua mano di acquerello, e profilate di penna e di chiaro e scuro, e lumeggiate di bianco, le quali sono nel nostro Libro de’disegni; e sono, a petto a quelli de’ maestri stati innanzi a lui, veramente una maraviglia.

Boccaccio e Sacchetti scrivono di Giotto

Fu, come si è detto, Giotto ingegnoso e piacevole molto, e ne’motti argutissimo, de’quali n’è anco viva memoria in questa città; perchè, oltre a quello che ne scrisse messer Giovanni Boccaccio, Franco Sacchetti nelle sue trecento Novelle ne racconta molti e bellissimi; dei quali non mi parrà fatica scriverne alcuni con le proprie parole appunto di esso Franco, acciò con la narrazione della Novella si veggano anco alcuni modi di favellare e locuzioni di que’tempi. Dice dunque in una,`per mettere la rubrica:

“A Giotto gran dipintore è dato un palvese a dipignere da
un uomo di picciol affare. Egli facendosene scherne, lo
dipigne per forma che colui rimase confuso”.

“Ciascuno può avere già udito chi fu Giotto, e quanto fu gran dipintore sopra ogni altro. Sentendo la fama sua un grossolano artefice, ed avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere uno suo palvese, subito n’andò alla bottega di Giotto, avendo chi li portava il palvese drieto; e giunto dove trovò Giotto, disse: Dio ti salvi, maestro: io vorrei che mi dipignessi l’arme mia in questo palvese. Giotto, considerando e l’uomo e l’modo, non disse altro se non: Quando il vuo’tu? e quel gliele disse. Disse Giotto: Lascia far a me. E partissi. E Giotto, essendo rimaso, pensa fra so medesimo: Che vuol dir questo? sarebbemi stato man dato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere. E costui che’l reca, è un omiciatto semplice, e dice ch’io gli facci l’arme sua, come se fosse dereali di Francia. Per certo, io gli debbo fare una nuova arme. E, così pensando fra se medesimo, si recò innanzi il detto palvese, e, disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla di pintura; e così fece. La quale dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello ed una lancia.

Giunto il valente uomo, che non sapea chi si fusse, fassi innanzi e dice: Maestro, è dipinto quel palvese? Disse Giotto: Sì bene. Va’, recalo giù. Venuto il palvese, e quel gentiluomo per proccuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto: Oh che imbratto è questo che tu m‘hai dipinto? Disse Giotto: E’ ti parrà bene imbratto al pagare. Disse quegli: lo non ne pagherei quattro danari. Disse Giotto: E che mi dicesti tù ch’io dipignessi? E quel rispose: L’armo mia. Disse Giotto: Non è ella qui? mancacene niuna? Disse costui: Ben istà. Disse Giotto: Anzi sta mal, che Dio ti dia, e dèi essere una gran bestia; che chi ti dicesse, chi se’tu, appena lo sapresti dire; e giungi qui e di’: Ipignimi l’armo mia. Se tu fussi stato de’ Bardi, sarebbe bastato. Che arme porti tu? di qua’ se’tu? chi furono gli antichi tuoi? deh, che non ti vergogni? comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d’arma, come stu « fussi il Dusnanì (il Duca Namo) di Baviera. Io t’ho fatta tutta armatura sul tuo palvese: se ce n’è più alcuna, dillo, ed io la farò dipignere. Disse quello: Tu mi di’villania, e m’hai guasto un palvese. E partesi, e vassene alla Grascia, e fa richieder Giotto. Giotto comparì, e fa richieder lui, addomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni, gli ufficiali, che molto meglio le dicea Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo così dipinto, e desse lire sei a Giotto, perocch’egli avea ragione. Onde convenne togliesse il palvese e pagasse, e fu prosciolto. Così costui, non misurandosi, fu misurato.

La mosca di Cimabue

Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta in sul naso d’una figura ch’esso Cimabue avea fatta, una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d’una volta a cacciarla con mano, pensando che fusse vera, prima che s’accorgesse dell’errore. Potrei molte altre burle fatte da Giotto e molte argute risposte raccontare: ma voglio che queste, le quali sono di cose pertinenti all’arte, mi basti aver detto in questo luogo, rimettendo il resto al detto Franco ed altri.

I versi del Poliziano

Finalmente, perchè restò memoria di Giotto non pure nell’opere che uscirono delle suo mani, ma in quelle ancora che uscirono di mano degli scrittori di que’tempi; essendo egli stato quello che ritrovò il vero modo di dipingere, stato perduto innanzi a lui molti anni; onde, per pubblico decreto, e per opera ed affezione particolare del magnifico Lorenzo vecchio dei Medici, ammirate le virtù di tanto uomo, fu posta in Santa Maria del Fiore l’effigie sua scolpita di marmo da Benedetto da Maiano scultore eccellente, con gli infrascritti versi fatti dal divino uomo messer Angelo Poliziano; acciocchè quelli che venissero eccellenti in qualsivoglia professione, potessero sperare d’avere a conseguire da altri di queste memorie, che meritò e conseguì Giotto dalla bontà sua largamente:

Ille ego sum, per quem pictura extincta revixit,
Cui quam recta manus., tam fuit et facilis.
Naturae deerat nostrae quod defuit arti:
Plus licuit nulli pingere, nec melius.
Miraris turrim egregiam sacro aere sonantem?
Haec quoque de modulo crevit ad astra meo.
Denique sum Jottus, quid opus fuit illa referre?
Hoc nomen longi cariminis instar erit.

E perchè possino coloro che verranno, vedere dei disegni di man propria di Giotto, e da quelli conoscere. maggiormente l’eccellenza di tanto uomo; nel nostro già detto Libro ne sono alcuni maravigliosi, stati da me ritrovati con non minore diligenza elio fatica e spesa.

Loredana Cifliku

Cresciuta a contatto con le antiche vestigia della Città dei Due Mari e della cultura della Magna Grecia, Loredana Cifliku ha compiuto studi classici nella sua Taranto per poi, come spesso capita nella vita, dedicarsi professionalmente a tutt’altro campo in tutt’altri luoghi. La passione per l’arte di qualsiasi epoca non l’ha però mai abbandonata ed anzi la coltiva dipingendo e frequentando luoghi ed esposizioni di ogni espressione estetica. Scrive d’arte e fotografa l’arte per la rivista ArtePiù

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