Non so per quale motivo voi siate andati al Museo Civico di Rimini: probabilmente per ammirare ciò che solo qui è custodito in tale quantità, ovvero le opere della Scuola Giottesca di Rimini.
Poi, improvvisamente, appesa quasi distrattamente ad una parete, vi siete trovata davanti la tela del Cristo Morto con Quattro Angeli di Giovanni Bellini. Perché, diciamolo, non si può mica ricordare tutto: certo non quale museo custodisca uno per uno i capolavori del nostro Rinascimento. Perché questa tela di Giovanni Bellini è senz’altro da annoverare tra questo ultimi.
Giovanni Bellini Cristo Morto con Quattro Angeli
La tela, dipinta dal maestro per i Malatesta, signori di Rimini era originariamente ospitata nel Tempio Malatestiano. In realtà, se Giorgio Vasari vuole il Cristo Morto commissionato da Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), l’opera potrebbe essere invece stata commissionata da Rainerio Migliorati, consigliere di Pandolfo, e destinata da quest’ultimo al Tempio Malatestiano per la propria cappella.
Se posso esprimere un sentimento personalissimo, questa, tra tutte, è l’opera di Bellini che più mi incanta. C’è la tradizione della scelta prospettica che porta il Cristo posto su un piano (probabilmente un marmo sul quale preparare il corpo per la sepoltura ma che richiama anche il bordo della sua tomba) in mezzo a noi (con le sue gambe che non vediamo ma che sono proprio lì) così come nella Pietà di Brera che è l’opera che il Cristo Morto immediatamente richiama.
Giovanni Bellini: la Pietà di Rimini tra morte e Resurrezione
Rispetto alla Pietà di Brera, Bellini esaspera la scelta dello sfondo. Lì il grigio delle nubi, qui addirittura il nero della notte. Nulla può distrarre chi guardi dal dramma del Cristo.
Ma c’è anche l’abbandono di ogni sacro distacco. Così appaiono senza veli le spoglie del Dio che si è fatto Uomo e che proprio la sua natura umana ci fa apparire ormai indifeso di fronte alla tirannia della morte. Nulla lascia presagire il trionfo della Resurrezione tranne, forse, proprio la leggiadria dei quattro angeli. Quattro angeli fanciulli: forse a rappresentare la purezza o anche ad indicare il futuro, tempo verbale proprio della giovinezza.
Poi c’è il pennello del grande maestro: a nulla varrebbe parlarne. E’ necessario guardare in silenzio, cercare il particolare. Le spine della corona. Le raffinatissime mani così in bilico (soprattutto la destra), tra ‘400 e ‘500. La barba e le labbra. Il perizoma intriso di sangue dagli esemplari chiaroscuri delle pieghe.
Poi c’è l’omogeneità della tavolozza raccolta introno ai colori degli incarnati ambrati e dei marroni fino a schiarirsi nella tunica dell’ultimo angelo a destra. Il fondo scuro dona omogeneità alla scena ed assorbe i rossi e i bianchi delle ali che creano visioni di colore rapidamente rapidamente attutite.
Ed ecco, appunto, i quattro angeli dei quali uno, però, è nascosto dal possente torso del Cristo. Mi piacerebbe poter dire qualcosa di molto rilevante in proposito, ma proprio non ci riesco: che abbia la tela di fronte o solo una foto, l’unica cosa che mi riesce di fare è guardarli. Sono la quintessenza della perfezione.
Qualche decennio più tardi, a Firenze, Rosso Fiorentino ci regalerà altri angeli che sono nel nostro immaginario collettivo. Non credo sia il caso di infilarci in una Disfida di Barletta a tal proposito: di certo, questi angeli di Giovanni Bellini competono alla pari in qualsiasi confronto.
Museo della Città – Musei di Rimini
Via Luigi Tonini, 1, 47921 Rimini RN
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