Polidoro da Caravaggio, al secolo Polidoro Caldara (Caravaggio 1500 circa – Messina 1543), giunto giovane a Roma nel 1515, lavorò nella bottega di Raffaello nelle Logge Vaticane. Subito emerse la sua abilità nel chiaroscuro e nello sgraffito.
Fu così che negli anni a cavallo del secondo decennio del XVI secolo ebbe a Roma il primato nella realizzazione di facciate a sgraffito per i palazzi patrizi della Città Eterna. In questa impresa si associò con Maturino da Firenze. Della loro opera ci restano le facciate di Palazzo Milesi e di Palazzo Ricci.
Al momento del Sacco di Roma, fuggì dalla città per rifugiarsi a Napoli e stabilirsi poi definitivamente a Messina. Qui venne tragicamente ucciso da un suo allievo.
Giorgio Vasari nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori ne traccia un ammirato ritratto. I titoli inseriti nel testo del Vasari, per aiutare la lettura a video, sono indegnamente nostri.
Giorgio Vasari: Polidoro da Caravaggio
È pur cosa di grandissimo esemplo e di averne timore il vedere la instabilità della fortuna rotare talora di basso in altezza alcuni, che di loro fanno maravigliosi fatti e cose impossibili nelle virtú. Perché risguardando noi i principii loro sí deboli e tanto lontani da quelle professioni che hanno poi esercitate, e poi vedendo con poco studio e con prestezza le opere loro mettersi in luce e tal che non umane paiono, ma celesti, di grandissimo spavento si riempiono alcuni poveri studiosi, i quali, nelle continue fatiche crepando, a perfezzione rare volte conducono l’opere loro. Ma chi può mai sperare da la invidiosa fortuna a chi tocchi pure tanta grazia, che col nome e con l’opere sia condotto già immortale, se, quando piú si speri che i guiderdoni delle fatiche siano remunerati, ella come pentita del bene a te fatto, contra la vita di te congiura e ti dà la morte? E non solo si contenta ch’ella sia ordinaria e comune, ma acerbissima e violenta, faccendo nascer casi sí terribili e sí mostruosi, che la istessa pietà se ne fugge, la virtú s’ingiuria et i benefici ricevuti in ingratitudine si convertono.
Per la qual cosa tanto si può lodare la pittura de la ventura nella virtuosa vita di Polidoro, quanto dolersi de la fortuna mutata in cattiva remunerazione nella dolorosa morte di quello. E veramente la inclinazione della natura in tale arte per lui avuta fu sí propria e divina, che sicuramente si può dire che e’ nascesse cosí pittore, come Virgilio nacque poeta e come veggiamo alle volte nascere certi ingegni maravigliosi.
Polidoro da Caravaggio: gli inizi
Era Polidoro da Caravaggio di Lombardia venuto a Roma ne’ tempi di Leon X e, mentre che le logge si fabbricavano nel palazzo per ordine di Raffaello da Urbino, egli portava lo schifo pien di calce a’ maestri che muravano, e fino che fu di xviii anni fece sempre quello esercizio. Ma cominciando Giovanni da Udine a dipignerle, e murandosi e dipignendosi, la volontà e la inclinazione di Polidoro molto volta alla pittura, non restò di far sí ch’egli prese dimestichezza con tutti quei giovani che erano valenti, per vedere i tratti et i modi dell’arte, e si mise a disegnar. Ma fra gli altri che furono suoi domestici, s’elesse per compagno Maturino Fiorentino, allora nella cappella del papa, et alle anticaglie tenuto bonissimo disegnatore. E talmente di questa arte invaghí, che in pochi mesi fé tanta prova del suo ingegno, che ne stupiva ogni persona che lo aveva già conosciuto in quell’altro stato.
Per la qual cosa, seguitandosi le logge, egli sí gagliardamente si esercitò con quei giovani pittori, che erano pratichi e dotti nella pittura, e sí divinamente apprese quella arte, che egli non si partí di su quel lavoro senza portarsene la vera gloria del piú bello e piú nobile ingegno, che fra tanti si ritrovasse. Per il che crebbe talmente lo amore di Maturino a Polidoro, e di Polidoro a Maturino, che deliberarono, come fratelli e veri compagni, vivere insieme e morire. E rimescolato le volontà, i danari e l’opere, di comune concordia si misero unitamente a lavorare insieme.
Seguendo Baldassarre Peruzzi si dedicano allo sgraffito
E perché erano in Roma pur molti, che di grado, d’opere e di nome i coloriti loro conducevano piú vivaci et allegri, e di favori piú degni e piú sortiti, cominciò entrargli nell’animo, avendo Baldasarre Sanese fatto alcune facce di case di chiaro e scuro, d’imitar quello andare et a quelle, già venute in usanza, attendere da indi innanzi.
Per il che ne cominciarono una a Monte Cavallo dirimpetto a San Salvestro in compagnia di Pellegrino da Modena, la quale diede loro animo di poter tentare se quello dovessi essere il loro essercizio; e ne seguitarono dirimpetto alla porta del fianco di San Salvatore del Lauro un’altra; e similmente fecero da la porta del fianco della Minerva una istoria, e di sopra San Rocco a Ripetta un’altra, che è un fregio di mostri marini. E ne dipinsero infinite in questo principio, manco buone dell’altre, per tutta Roma, che non accade qui raccontarle per avere eglino poi in tal cosa operato meglio.
Lo studio della maniera antica
Laonde, inanimiti di ciò, cominciarono sí a studiare le cose dell’antichità di Roma, ch’eglino contraffacendo le cose di marmo antiche ne’ chiari e scuri loro, non restò vaso, statue, pili, storie né cosa intera o rotta, ch’eglino non disegnassero e di quella non si servissero. E tanto con frequentazione e voglia a tal cosa posero il pensiero, che unitamente presero la maniera antica e tanto l’una simile all’altra, che sí come gl’animi loro erano d’uno istesso volere, cosí le mani ancora esprimevano il medesimo sapere. E benché Maturino non fosse quanto Polidoro aiutato dalla natura, poté tanto l’osservanzia dello stile nella compagnia, che l’uno e l’altro pareva il medesimo, dove poneva ciascuno la mano, di componimenti, d’aria e di maniera.
Fecero su la piazza di Capranica per andare in Colonna, una facciata con le Virtú teologiche et un fregio sotto le finestre, con bellissima invenzione, una Roma vestita e per la fede figurata, col calice e con | l’ostia in mano, aver prigione tutte le nazioni del mondo, e concorrere tutti i popoli a portarle i tributi, et i Turchi a l’ultima fine distrutti, saettare l’arca di Macometto, conchiudendosi finalmente col detto della Scrittura, che sarà uno ovile et un pastore. E nel vero eglino d’invenzione non ebbero pari, di che ne fanno fede tutte le cose loro, cariche di abbigliamenti, veste, calzari, strane bizzarrie, e con infinita maraviglia condotte. Et ancora ne rendono testimonio le cose loro, da tutti i forestieri pittori disegnate sí di continuo, che piú utilità hanno essi fatto all’arte della pittura, per la bella maniera che avevano e per la bella facilità, che tutti gli altri da Cimabue in qua insieme non hanno fatto. Laonde si è veduto di continuo, et ancor si vede per Roma, tutti i disegnatori essere piú volti alle cose di Polidoro e di Maturino, che a tutte l’altre pitture moderne. Fecero in Borgo
Nuovo una facciata di graffito, e su ‘l canto della Pace un’altra di graffito similmente; e poco lontano a questa, nella casa de gli Spinoli per andare in Parione, una facciata, dentrovi le lotte antiche, come si costumavano, et i sacrificii e la morte di Tarpea. Vicino a Torre di Nona verso il ponte Sant’Angelo si vede una facciata piccola con un trionfo per Camillo et un sacrificio antico figurato. Nella via che camina a la imagine di Ponte è una facciata bellissima con la storia di Perillo, quando egli è messo nel toro di bronzo da lui fabbricato. Nella quale si vede la forza di coloro che lo mettono in esso toro, et il terrore di chi aspetta vedere tal morte inusitata. Oltra che vi è a sedere Falari (come io credo) che comanda con imperiosità bellissima che e’ si punisca il troppo feroce ingegno che aveva trovato crudeltà nuova per ammazzar gli uomini con maggior pena. Et in questa si vede un fregio bellissimo di fanciulli figurati di bronzo, et altre figure. Sopra questa fece poi un’altra facciata di quella casa stessa, dove è la imagine che si dice di Ponte, ove con l’ordine senatorio vestito nell’abito antico romano piú storie da loro figurate si veggono. Et alla piazza della Dogana allato a Santo Eustachio una facciata di essi di battaglie. E dentro in chiesa, a man destra entrando, si conosce una cappellina con le figure dipinte da Polidoro. Fecero ancora sopra Farnese un’altra de’ Cepperelli, et una facciata dietro alla Minerva, nella strada che va a’ Maddaleni, dentrovi storie romane. E fra l’altre cose belle vi si vede un fregio di fanciulli di bronzo contraffatti che trionfano, condotto con grandissima grazia e somma bellezza. Nella faccia de’ Buoni Auguri, vicino alla Minerva, sono alcune storie di Romolo bellissime, ciò è quando egli con lo aratro disegna il luogo per la città, e quando gli avoltoi gli volano sopra, dove, imitando gli abiti, le cere e le persone antiche, pare veramente che gli uomini siano quelli istessi. E nel vero che di tal magisterio nessuno ebbe mai in questa arte né tanto disegno, né piú bella maniera, né sí gran pratica o maggior prestezza. E ne resta ogni artefice sí maravigliato, ogni volta che quelle vede, ch’è forza stupire che la natura abbia in questo secolo potuto aver forza farci per tali uomini vedere i miracoli suoi.
La facciata di Palazzo Ricci
Fecero ancora, sotto Corte Savella, la casa che comperò la Signora Gostanza, quando le Sabine son rapite; la quale istoria fa conoscere non meno la sete et il bisogno del rapirle, che la fuga e la miseria delle meschine portate via da diversi soldati, et a cavallo et in diversi modi. E non sono in questa sola simili advertimenti, ma molto piú nelle istorie di Muzio e d’Orazio, e la fuga di Porsena Re di Toscana.
Una moltitudine di facciate a sgraffito romane
Lavorarono nel giardino di quel dal Bufalo, vicino alla fontana di Trievi, storie bellissime del fonte di Parnaso, e vi fecero grottesche e figure piccole colorite. Similmente nella casa del Baldassino, da Santo Agostino, fecero graffiti e storie, e nel cortile alcune teste d’imperadori sopra le finestre. Lavorarono in Monte Cavallo vicino a Santa Agata una facciata, dentrovi infinite e diverse storie, come quando Tuzia vestale porta da ‘l Tevere a ‘l tempio l’acqua nel crivello, e quando Claudia tira la nave con la cintura. E cosí lo sbaraglio che fa Camillo mentre che Brenno pesa l’oro. E nella altra facciata dopo il cantone, Romolo et il fratello alle poppe della lupa, e la terribilissima pugna di Orazio, che mentre solo fra mille spade difende la bocca del ponte, ha dietro a sé molte figure bellissime, che in diverse attitudini, con grandissima sollecitudine, co’ picconi tagliano il ponte. Èvvi ancora Muzio Scevola, che nel cospetto di Porsena abbrucia la sua stessa mano che aveva errato nello uccidere il ministro in cambio del re, dove si conosce il disprezzo del re, il desiderio della vendetta. E dentro in quella casa fecero molti paesi.
Lavorarono la facciata di San Pietro in Vincola e le storie di San Pietro in quella con alcuni profeti grandi. E fu tanto nota per tutto la fama di questi maestri, per l’abbondanza del lavoro, che furono cagione le publiche pitture da loro con tanta bellezza lavorate, che meritarono lode grandissima in vita, et infinita et eterna, per la imitazione, l’hanno avuta dopo la morte. Fecero ancora su la piazza, dove è il palazzo de’ Medici, dietro a Naona, una faccia coi trionfi di Paulo Emilio, et infinite altre storie romane. Et a San Salvestro di Monte Cavallo, per fra’ Mariano, per casa e per il giardino alcune cosette; et in chiesa li dipinsero la sua cappella e due storie colorite di Santa Maria Maddalena, nelle quali sono i macchiati de’ paesi fatti | con somma grazia e discrezione, ché Polidoro veramente lavorò i paesi o macchie d’alberi e sassi meglio d’ogni pittore. Et egli nell’arte è stato cagione di quella facilità, che oggi usano gli artefici nelle cose loro.
Fecero ancora molte camere e fregi nelle case di Roma, coi colori a fresco et a tempera lavorati, le quali opere erano da essi esercitate per prova, ché mai a’ colori non poterono dare quella bellezza, che di continuo diedero alle cose di chiaro e scuro, o in bronzo o in terretta, come si vede ancora nella casa che era del Cardinale di Volterra da Torre Sanguigna. Nella faccia della quale fecero uno ornamento di chiaro oscuro bellissimo, e dentro alcune figure colorite, le quali sono tanto mal lavorate e condotte, che hanno deviato da ‘l primo essere il disegno buono ch’eglino avevano. E ciò tanto parve piú strano per esservi appresso un’arme di Papa Leone, di ignudi, di man di Giovan Francesco Vetraio, il quale se la morte non avesse tolto di mezzo arebbe fatto cose grandissime. E non isgannati per questo de la folle credenza loro, fecero ancora in Santo Agostino di Roma, allo altare de’ Martelli, certi fanciulli coloriti, dove Iacopo Sansovino per fine dell’opera fece una Nostra Donna di marmo; i quali fanciulli non paiono di mano di persone illustri, ma d’idioti che comincino allora quella arte. Per il che nella banda dove la tovaglia cuopre l’altare, fece Polidoro una storietta d’un Cristo morto con le Marie, ch’è cosa bellissima, mostrando nel vero essere piú quella la professione loro che i colori.
Onde ritornati al solito loro, fecero in Campo Marzio due facciate bellissime: nell’una le storie di Anco Marzio, e nell’altra le feste de’ Saturnali celebrate in tal luogo, con tutte le bighe e quadrighe de’ cavalli ch’a gli obelischi aggirano intorno, che sono tenute bellissime per essere elleno talmente condotte di disegno e bella maniera, che espressissimamente rappresentano quegli stessi spettacoli per i quali elle sono dipinte. Su ‘l canto della Chiavica, per andare a Corte Savella, fecero una facciata la quale è cosa divina, e delle belle che fecero, giudicata bellissima. Perché oltra la istoria delle fanciulle che passano il Tevere, abbasso vicino alla porta è un sagrifizio fatto con industria et arte maravigliosa, per vedersi osservato quivi tutti gli instrumenti e tutti quegli antichi costumi, che a’ sagrifizii di quella sorte si solevano osservare.
Vicino al Popolo, sotto San Iacopo de gli Incurabili, fecero una facciata con le storie di Alessandro Magno che è tenuta bellissima, nella quale figurarono il Nilo e ‘l Tebro di Belvedere antichi. A San Simeone fecero la facciata de’ Gaddi, ch’è cosa di maraviglia e di stupore nel considerarvi dentro i belli e tanti e varii abiti, la infinità delle celate antiche, de’ soccinti, de’ calzari e delle barche, ornate con tanta leggiadria e copia d’ogni cosa, che imaginare si possa un sofistico ingegno. Quivi la memoria si carica di una infinità di cose bellissime, e quivi si rappresentano i modi antichi, l’effigie de’ savi e le bellissime femmine. Perché vi sono tutte le spezie de’ sacrifici antichi, come si costumavano, e da che s’imbarca uno esercito e combatte con variatissima foggia di strumenti e di armi, lavorate con tanta grazia e condotte con tanta pratica, che l’occhio si smarrisce nella copia di tante belle invenzioni.
Palazzo Milesi e il mito di Niobe
Dirimpetto a questa è un’altra facciata minore, che di bellezza e di copia non potria migliorare, dov’è nel fregio la storia di Niobe quando si fa adorare e le genti che portano tributi e vasi e diverse sorti di doni; le quali cose con tanta novità, leggiadria, arte, ingegno e rilievo espresse egli in tutta questa opera, che troppo sarebbe certo | narrarne il tutto. Seguitò appresso lo sdegno di Latona e la miserabile vendetta ne’ figliuoli della superbissima Niobe, e che i sette maschi da Febo e le sette femmine da Diana le sono amazzati, con una infinità di figure di bronzo che non di pittura, ma di metallo paiono.
E sopra altre storie lavorate con alcuni vasi d’oro contrafatti con tante bizzarrie dentro, che occhio mortale non potrebbe imaginarsi altro, né piú bello né piú nuovo, con alcuni elmi etrusci da rimaner confuso per la moltiplicazione e copia di sí belle e capricciose fantasie, ch’uscivano loro de la mente. Le quali opere sono state imitate da infiniti che lavorano in tali bizzarrie. Fecero ancora il cortile di questa casa, e similmente la loggia, colorita di grotteschine picciole, che sono stimate divine. Insomma ciò che eglino toccarono, con grazia e bellezza infinita assoluto renderono. E s’io dovessi nominare tutte le opere loro, farei un libro intero de’ fatti loro, perché non è stanza, palazzo, giardino, né vigna, dove non siano opere di Polidoro e di Maturino.
Polidoro da Caravaggio a Napoli
Ora, mentre che Roma ridendo s’abbelliva de le fatiche loro et essi aspettavano premio de i proprii sudori, l’invidia e la fortuna mandarono a Roma Borbone, l’anno mdxxvii, che quella città mise a sacco. Laonde fu divisa la compagnia non solo di Polidoro e di Maturino, ma di tante migliaia d’amici e di parenti, ch’a un sol pane tanti anni erano stati in Roma. Perché Maturino si mise in fuga, né molto andò che da i disagi patiti per tal sacco, si stima a Roma ch’e’ morisse di peste, e fu sepolto in Santo Eustachio. Polidoro verso Napoli prese il suo camino, e quivi capitando, essendo quei gentili uomini poco curiosi de le cose eccellenti di pittura, fu per morirvisi di fame. Onde egli lavorando a opere per alcuni pittori, fece in Santa Maria della Grazia un San Pietro nella maggior cappella; e cosí aiutò in molte cose que’ pittori, piú per campare la vita che per altro. Ma pure essendo predicato le virtú sue, fece al conte di *** una volta dipinta a tempera, con alcune facciate, ch’è tenuta cosa bellissima. E cosí fece il cortile di chiaro e scuro al s<ignor> *** et insieme alcune logge, le quali sono molto piene di ornamento e di bellezza, e ben lavorate. Fece ancora in Santo Angelo, allato alla pescheria di Napoli, una tavolina a olio, nella quale è una Nostra Donna et alcuni ignudi d’anime cruciate, la quale di disegno, piú che di colorito, è tenuta bellissima. Similmente alcuni quadri, in quella dello altar maggiore, di figure intere sole, nel medesimo modo lavorate.
La partenza per Messina
Avvenne che, stando egli in Napoli, e veggendo poco stimata la sua virtú, deliberò partire da coloro che piú conto tenevano d’un cavallo che saltasse che di chi facesse con le mani le figure dipinte parer vive. Per il che, montato su le galee, si trasferí a Messina, e quivi trovato piú pietà e piú onore, si diede ad operare; e talmente lavorando di continuo prese ne’ colori buona e destra pratica. Onde egli vi fece di molte opere, che sono sparse in molti luoghi. Et alla architettura attendendo, diede saggio di sé in molte cose ch’e’ fece. Appresso nel ritorno di Carlo V da la vittoria di Tunizi, passando egli per Messina, Polidoro gli fece archi triomfali bellissimi, onde n’acquistò nome e premio infinito. Laonde egli, che di continuo ardeva di desiderio di rivedere quella Roma, la quale di continuo strugge coloro che stati ci sono molti anni nel provare gli altri paesi, avendo ne l’ultimo fatto una tavola d’un Cristo che porta la croce, lavorata a olio, di bontà e di colorito vaghissimo. Nella quale fece un numero di figure che accompagnano | Cristo a la morte, soldati, farisei, cavagli, donne, putti et i ladroni innanzi, col tener ferma la intenzione, come poteva essere ordinata una giustizia simile: che ben pareva che la natura si fusse sforzata a far l’ultime pruove sue in questa opera veramente eccellentissima. Dopo la quale cercò egli molte volte svilupparsi di quel paese, ancora ch’egli ben veduto vi fosse; ma la cagione della sua dimora era una donna, da lui molti anni amata, che con sue dolci parole e lusinghe lo riteneva. Ma pure tanto poté in lui la volontà di rivedere Roma e gli amici, che levò del banco una buona quantità di danari ch’egli aveva, e risoluto al tutto, deliberò partire il giorno seguente.
Aveva Polidoro tenuto molto tempo un garzone di quel paese, il quale portava maggiore amore a’ danari di Polidoro che a lui, ma per averli cosí su ‘l banco, non poté mai porvi su le mani e con essi partirsi; per il che caduto in pensiero malvagio e crudele, deliberò la notte seguente, mentre che dormiva, con alcuni suoi congiurati amici, dargli la morte e poi partire i danari fra loro. Laonde nel primo sonno che Polidoro dormiva, quegli con una fascia lo strangolarono, e poscia gli diedero alcune ferite, tanto che lo fecero morire. E per mostrare ch’essi non l’avessero fatto, lo portarono su la porta della donna da Polidoro amata, fingendo che o parenti o altri in casa l’avessero ammazzato. Diede dunque il garzone buona parte de’ danari a que’ ribaldi, che sí brutto eccesso avevano commesso; e quindi li fece partire. La mattina piangendo andò a casa un conte, amico del morto maestro, e tuttavia gridava giustizia. Per che molti dí si cercò tal cosa, né mai nulla ne venne a luce. Ma pure come Dio volle, avendo la natura e la virtú a sdegno d’essere per mano della fortuna percosse, fecero a uno, che | interesso non ci aveva, parlare come impossibile era che altri che tal garzone l’avesse assassinato. Per il che il conte gli fece por le mani addosso, et alla tortura messolo, senza che altro martorio gli dessero, confessò il delitto, e fu dalla giustizia condannato alle forche, ma prima con tanaglie affocate per la strada tormentato et ultimamente squartato.
Ma non per questo tornò la vita a Polidoro, né alla pittura si rese quello ingegno pellegrino e veloce, che per tanti secoli non era piú stato al mondo. Per il che se allora ch’egli morí, avesse potuto morire con lui, sarebbe morta la invenzione, la grazia e la bravura nelle figure dell’arte. Felicità della natura e della virtú nel formare in tal corpo cosí nobile spirto; et invidia et odio crudele di cosí strana morte nel fato e nella fortuna sua, la quale, se bene gli tolse la vita, non gli torrà per alcun tempo il nome. Furono fatte l’esequie sue solennissime, e con doglia infinita di tutta Messina nella chiesa catedrale datogli sepoltura l’anno mdxxxxiii. Et ebbe appresso questo epitaffio:
FACIL STVDIO IN PITTVRA,
ARTE, INGEGNO, FIEREZZA E POCA SORTE
EBBI IN VINCER NATVRA
STRANA, ORRIBILE INGIVSTA E CRVDA MORTE.
Aggiunse all’arte della pittura Polidoro facilità, copia d’abiti e stranissimi ornamenti e garbi nelle cose d’ogni sorte, e grazia e destrezza in ogni lineamento o pittura; arricchilla d’una universalità d’ogni sorte figure, animali, casamenti, grottesche e paesi, che da lui in qua ogni pittore ha cercato essere in tutte queste parti universale; onde il mondo piú l’onora cosí morto, che se si fosse perpetuato vivo eternamente nel mondo
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