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San Gimignano: l’affresco della Verità e della Menzogna nel Palazzo Pubblico

Un dipinto “…di poco merito artistico”: così F. Brogi giudicò questo affresco nell’Inventario generale degli oggetti d’arte della Provincia di Siena che redasse tra il 1862 ed il 1865. Parliamo di un affresco monocromo situato sulla parete sinistra della Loggia della Giustizia di San Gimignano, uno spazio coperto che si affaccia sulla corte del Palazzo Pubblico.

Un giudizio quanto mai severo quello del Brogi, forse dovuto al fatto che nella loggia, proprio di fronte al dipinto, vi è un altro affresco monocromo ben più noto, realizzato nel 1507 da Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, al cui cospetto il nostro dipinto non poteva che apparire come un’opera di secondo ordine. Ritenuto per di più dall’estensore dell’Inventario un lavoro a tempera e non “a fresco”, il dipinto si presentava inoltre già allora “mutilato” perché privo della parte inferiore, al pari di come è oggi, a seguito della costruzione in epoca precedente di una scala che conduceva alle scuole cittadine. La mancanza di questa parte del dipinto ha sicuramente influito sull’identificazione del soggetto dell’opera che il Brogi ritenne essere “La Verita’, la Prudenza e la Menzogna calpestata da un Magistrato, il quale vedesi seduto nel suo seggio”.

Un’opera dimenticata che merita di essere rivalutata

Il dipinto, attribuito a Vincenzo Tamagni da San Gimignano (1492 – 1530), fu probabilmente realizzato in collaborazione con il suo primo maestro Giovanni Cambi (R. Castrovinci – 2017) e può ritenersi coevo all’antistante affresco del Sodoma. A sinistra è raffigurata la Verità: una giovane donna discinta che reca un ramo d’olivo; la Prudenza è rappresentata nelle sembianze di una donna vestita con in mano un bastone sul quale è arrotolato un serpente. Al centro un Magistrato, sotto i cui piedi giace sconfitta la Menzogna. Si tratta pertanto di una allegoria della Giustizia, un potente exemplum morale che doveva servire da monito ai magistrati che esercitavano le loro funzioni nello spazio della loggia.

L’interpretazione tradizionale dell’affresco

I numerosi storici dell’arte che si sono occupati del patrimonio artistico di San Gimignano nel secolo scorso hanno costantemente confermato l’interpretazione del soggetto dell’opera data dal Brogi (tra i tanti, E. Carli e J. V. Imberciadori – 1987). L’interpretazione del Brogi trova in effetti ampi riscontri nell’iconografia classica ed anche senese. In particolare, la figura della Prudenza richiama una tarsia marmorea presente nel pavimento del Duomo di Siena, eseguita su disegno del pittore senese Martino di Bartolomeo (1370/1375 circa – 1434 circa). Anche qui questa Virtù è impersonificata da una figura femminile con un serpente nella mano destra, chiara allusione al celebre passo del Vangelo di Matteo che riporta le parole che Gesù Cristo rivolse ai suoi apostoli per metterli in guardia dalle insidie della loro missione (10-16: Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe).

Duomo di Siena – La Prudenza – Martino di Bartolomeo

La similitudine iconografica tra la donna vestita con in mano un serpente dell’affresco sangimignanese e la Prudenza della tarsia marmorea del Duomo di Siena indussero con ogni probabilità il Brogi a riconoscere nella figura posta alla destra del Magistrato la rappresentazione di questa Virtù, in ragione della presenza in entrambe dell’attributo del serpente.

Una nuova “lettura” iconologica dell’affresco

L’interpretazione del Brogi non dà tuttavia una spiegazione ad un singolare elemento iconografico dell’affresco  della loggia sangimignanese: gli uccelli collocati sul capo della Verità e della Prudenza, l’uno bianco e l’altro nero. La diversità cromatica dei volatili rende improbabile ogni possibile riferimento alle colombe del testo evangelico di Matteo. Inoltre l’interpretazione dell’autore dell’Inventario ottocentesco non contestualizza la presenza della scritta collocata sopra la figura della Verità: PER QUEL CHE PECHA L’H(U)O(M) PER QUEL PATISCE / CAVA TU, VERITA’, ALLA BUGIA / LA FALSA LINGUA QUAL SEMPRE MENTISCE.

Nel 1993 M.M. Donato e successivamente S. Agnoletto nel 2017 hanno proposto una diversa “lettura” dell’affresco che appare più verosimile poiché armonizza in un insieme unitario tutti gli elementi iconografici del dipinto. L’affresco sarebbe una trasposizione in pittura di un brano del Trattato di Architettura di Antonio Averlino detto il Filarete (1400 circa – 1469): scultore, architetto e teorico dell’architettura, ebbe un ruolo importante nel primo sviluppo di alcuni concetti dell’architettura e dell’urbanistica rinascimentale. Il soprannome di stampo umanistico con cui è prevalentemente noto, da lui stesso scelto, significa “colui che ama le virtù”. Tra il 1460 e il 1464 scrisse il Trattato dedicandolo a Francesco Sforza, duca di Milano, composto sotto forma di dialogo tra l”architetto” e il “duca”. L’unico manoscritto completo giunto sino a noi, seppure probabilmente non autografo, è il cosiddetto Codice Magliabechiano che dovrebbe corrispondere a una seconda versione dell’opera, dedicata a Piero de Medici e redatta successivamente in occasione del suo ritorno a Firenze. Il Trattato, pubblicato in forma integrale in Italia solo nel 1972, contiene tra l’altro il piano della prima “città ideale” compiutamente teorizzata: Sforzinda, inserita in una cinta muraria a forma di stella a otto punte.

Merita riportare il passaggio in questione (Liber Decimus) del Trattato, come detto redatto sotto forma di dialogo tra l’architetto ed il duca, che ha ispirato la nuova “lettura” iconologica dell’affresco. Filarete ed il “Signore” si trovano nel cortile del Palazzo del Podestà di Sforzinda, ed il secondo chiede all’architetto un suo parere:

Entrato dentro e veduto il portico e ‘l chiostro, gli piacque e disse allora: ‘Che ci starebbe bene qui dipinto in questa prima entrata?’ …
‘Quello che a me pare stia bene qui si è questo: che in questa prima entrata sia dipinta la Verità e la Bugia, perché questo è luogo dove ha a essere gastigata la bugia e ‘  malfattori.’
‘Questa sarà bene degna e bella cosa, ma in che modo si figurerà questa Bugia e questa Verità?’
Udendo questo io dissi: ‘Signore, io vi dirò come l’ho veduta dipinta in alcuno luogo.’
‘Dimmi com’è la Verità.’

‘Io l’ho veduta dipinta: una donna inuda, bella, amantata con uno candido velo; e in mano tiene una borsa piena di danari voltata di sotto in su, e pare che ella sparga detti danari per terra, e da l’altra mano tiene uno ramo d’olivo e i piedi tiene alti sopra terra in su uno marmo bianco, e in capo tiene una colomba. E la Bugia è una femmina vestita di nero con i stivaletti in piè con molte legature, e in mano tiene una borsa piena di danari e tiella stretta, e da l’altra mano tiene una verghetta avoltatovi su una serpe, e in capo ha uno corbo, li piè tiene bassi nell’acqua, così l’ho veduta figurata. E poi ho veduto che la Verità cava la lingua alla Bugia con uno paio di tanaglie di fuoco; e così la colomba che porta in capo la Verità cava la lingua al corvo.’

Il testo filaretiano contempla molti elementi che compaiono nell’affresco sangimignanese e, al contempo, consente una interpretazione del dipinto completamente diversa rispetto a quella del Brogi e degli storici dell’arte che hanno accolto successivamente la sua “lettura” dell’opera: non la Verità e la Prudenza sarebbero al fianco del Magistrato bensì la Verità e la Bugia. Attenendoci a questa nuova interpretazione iconologica troverebbero inoltre una valida spiegazione gli uccelli di diverso colore e portamento – la colomba bianca ed il corvo nero – posti sul capo delle due figure femminili nonché la scritta “a tema” posta sopra la Verità. Inoltre, sotto i piedi del Giudice vi sarebbe non la Menzogna bensì nuovamente la Verità intenta a strappare la lingua alla Bugia con un paio di tenaglie di fuoco. Purtroppo, mancando la parte inferiore dell’affresco, distrutta prima dell’Inventario del Brogi per far posto alla scala ancora presente sotto la loggia, tale scena non è più visibile, elemento che non ci consente di comprovare questa nuova interpretazione del soggetto dell’affresco. Tuttavia dobbiamo osservare una certa somiglianza tra la Verità accanto al Magistrato e quel che resta della figura femminile posta ai suoi piedi: entrambe hanno le chiome sciolte, fatto che depone a favore della tesi che vuole l’affresco ispirato, non sappiamo se direttamente o mediatamente, al testo del Filarete. Inoltre il Magistrato indica con il dito della mano destra la donna vestita, come se volesse esortare la Verità, verso la quale ha rivolto lo sguardo, ad agire contro la Bugia.

Altri riferimenti iconografici a favore della nuova interpretazione dell’affresco

Filarete scrive: “ Io l’ho veduta dipinta”, riferendosi alla Verità. Ed in effetti una immagine della Verità che cava la lingua alla Bugia, oggi non più esistente, era presente a Firenze al tempo in cui visse l’architetto umanista. Ce lo riferisce Giogio Vasari nelle Vite, in un passaggio della biografia del pittore Taddeo Gaddi: “Ritornò a Fiorenza e dipinse il tribunale della Mercatanzia Vecchia, nella quale istoria con poetica invenzione figurò il tribunale de’ sei uomini, magistrato di detta città, i quali stanno a vedere cavare la lingua alla Bugia dalla Verità, la quale è vestita di velo su lo ignudo, e la Bugia ammantata di nero, scritto sotto a queste figure i versi che seguono: La pura Verità per ubbidire Alla santa Giustizia che non tarda, Cava la lingua a la falsa Bugiarda. E sotto la storia è uno epigrama in nome suo, cosí scritto: Taddeo dipinse questo bel rigestro, Discepol fu di Giotto il buon maestro.

Anche nella vicina città di Certaldo, a pochi chilometri da San Gimignano, vi era la stessa immagine nel Palazzo del Vicario, ed esattamente nella stanza detta “Camera del Cavaliere” o “del Tribunale”. In questa stanza si istruivano i processi e sulla porta d’ingresso campeggia la scritta Odi l’altra parte e credi pochissimo. Sulla sinistra della porta rimangono solo poche tracce di un affresco allegorico del 1510, commissionato da Raffaello Antinori e intitolato “La Verità che con le tenaglie strappa la lingua alla menzogna”. Sotto l’affresco figurava una scritta, oggi scomparsa, annotata da M. Cioni nel 1905: “Io ti comando o pura verità – che tu chavi la lingua alla bugia – acioche de’ bugiardi exemplo sia. Raphaello di Thommaso Antinori Vic. MDX”.

Abbiamo pertanto prova che la rappresentazione sangimignanese della Verità che strappa la lingua alla Bugia  non era un unicum ma che era presente nei palazzi di altre città toscane dove si esercitava il potere giudiziario.

Giuseppe Riccardo Guerrieri

Laureato in Scienze Politiche a “La Sapienza” di Roma e Master in Business Administration alla Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino, Giuseppe Riccardo Guerrieri ha sempre abbinato alla sua attività di manager e consulente nel campo della direzione del personale la passione per la storia dell'arte. Ancora ventenne scrive per “Aeroporti nel Mondo” e collabora occasionalmente con “Paese Sera” e “La Voce Repubblicana”. Consegue nel 1981 l'iscrizione all'Ordine dei Giornalisti – Elenco Pubblicisti del Lazio e del Molise. Guida Turistica dal 2015, alterna al suo impegno di Human Resources Temporary Manager l'accompagnamento di gruppi di turisti italiani e stranieri nelle Terre di Siena, territorio ricco di storia e bellezze artistiche che ha eletto come sua patria d'adozione.

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