di Elisabetta Matteucci
L’iniziativa, quanto mai meritoria, della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze di acquistare nel 2007 un importante fondo di documenti riconducibile alla famiglia di Giovanni e Telemaco Signorini ha suggerito l’idea della mostra La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini dove, per la prima volta, viene esposto, unitamente, un consistente numero di opere dei due pittori.
L’occasione è favorevole per documentare, con quadri esemplari e notizie inedite, sia la trasformazione che nella Toscana preunitaria ha interessato la veduta urbana, idealizzata da abili interpreti quali Antonio Morghen, Carlo Burci e Giuseppe Moricci, sia la vicenda dei due pittori, arricchita da elementi atti a restituirne una nuova lettura critica.
Giovanni e Telemaco Signorini: uno spaccato di storia fiorentina
Il risultato è uno spaccato di oltre mezzo secolo di storia fiorentina, dal consolidarsi del regno del granduca Leopoldo II d’Asburgo Lorena, alla sfavillante età della Belle Époque. Durante questo periodo Firenze, pur nelle alterne vicende politiche, conquista l’immagine di città aperta al mondo, meta ambita di artisti bramosi di scoprirne e diffonderne il fascino pittorico. Telemaco ed il padre Giovanni, discendenti di un casato che affonda le sue radici nel “patriziato fiorentino”, come indicato nell’albero genealogico redatto nel 1723 dall’antiquario regio Lorenzo Maria Mariani, sono quelli che più vi contribuiscono registrando con il cuore, prima che con l’occhio, le testimonianze più suggestive del mutare dei tempi.
In una galleria a tratti struggente, restituiscono per imagines la lenta ma sensibile trasformazione della città in quel giro d’anni in cui il piano di sviluppo urbano ideato da Giuseppe Poggi ne cambia radicalmente la fisionomia.
Ed è anche per significare l’amore e il rimpianto per un passato destinato di lì a breve a sopravvivere unicamente nella memoria e nelle foto degli Alinari, che Telemaco, come un poeta romantico, fissa il ritratto meno scontato e più toccante dei luoghi caratteristici di Firenze e dei suoi dintorni, in una serie dipinti e incisioni, icone di verità narrativa, destinate a rimanere tra i risultati più riusciti e commoventi della sua produzione.
I Signorini: una collocazione centrale nella cultura figurativa europea
L’uno, Telemaco, ricordato quasi esclusivamente per il coinvolgimento nel gruppo macchiaiolo, l’altro, Giovanni, ricondotto ai pittori prossimi alla Scuola di Staggia, costituitasi attorno alla famiglia dei Markò – concorrenti diretti dei Signorini con i loro paesaggi “fiammingheggianti” – in virtù dei rispettivi idiomi meritano, a nostro avviso, una collocazione centrale nel panorama della cultura figurativa europea.
Giovanni per la rielaborazione del vedutismo settecentesco, di grande successo tra gli amanti del Belpaese, attualizzato alla nuova concezione di vita dell’epoca – da qui l’appellativo di “Canaletto fiorentino” – Telemaco per essersi distinto come uno dei più agguerriti innovatori dei canoni accademici, generando una forma di sintetismo ottico che da una dimensione locale si è fatta stile, divenendo espressione fondante dell’arte moderna.
È noto, infatti, come gli stessi contemporanei intravedessero in lui un artista cosmopolita, non solo per la cultura, la lucidità del pensiero e la capacità di confrontarsi con qualsiasi interlocutore, ma anche per la
proverbiale eccentricità e il tratto distinto di uomo di mondo sicuro di sé: “con fiore all’occhiello, guanti chiari e mazza in mano, un paltò corto e largo color di nocciola con le cuciture doppie e due spacchi sui lati, da fantino inglese, calzoni rimboccati, in capo una tuba lucida per grande travaglio di spazzole e di fiato, occhiali a stanga che sul naso un po’ camuso scendevano sempre più giù degli occhi” – è la descrizione tracciata da Ugo Ojetti nella rivista “La Lettura” del 1909 – che portavano molti a scambiarlo per un dandy con indirizzo in St. James.
Forse è anche la consapevolezza di un’intelligenza superiore, che lo poneva in ogni circostanza un gradino al di sopra degli altri, a renderlo estremamente selettivo nei rapporti, con l’inevitabile conseguenza di non attirarsi la simpatia dei colleghi. L’interruzione dell’amicizia con Cristiano Banti, messo in minoranza nella premiazione delle opere alla Mostra Nazionale di Parma del 1870, nonché la presa di distanza da Fattori al momento di sostenerne la candidatura per la cattedra rimasta vacante all’Istituto Superiore di Magistero Femminile, a seguito della morte di Adriano Cecioni avvenuta nel 1884, sono solo due dei molti episodi rivelatori di una natura tutt’altro che magnanima negli altrui giudizi. Non meno eloquente in tal senso il tono, tra l’aspro e il sarcastico, della lettera indirizzata nell’aprile 1893 al pittore Michele Tedesco, vecchia conoscenza, con il quale i rapporti non erano più quelli dei tempi del Caffè Michelangiolo
“Caro Michele, è tale e tanta la mia leggerezza che la pesantezza tua mi secca e mi offende. Se non hai molto spirito hai però abbastanza intelligenza e memoria da rammentarti che a Firenze si ride di tutto e più specialmente della gente seria. Io che son più fiorentino di Stenterello e Farinata, non prendo sul serio né la tua lettera né la tua elezione per la giunta di Belle Arti. Ti saluto.”
Telemaco Signorini: un fiorentino europeo
Nel definirsi di una personalità tanto ricercata e complessa hanno giocato, non poco, i ripetuti viaggi a Parigi e Londra, tra il 1861 e il 1884, nonché i rapporti con i più autorevoli esponenti dell’arte e della letteratura, da Zola a Degas, da Leighton a Corot, a Sargent. Si aggiunga l’assidua presenza sul mercato internazionale delle sue opere, grazie anche all’intermediazione di dealer autorevoli come Goupil, Agnew e Colnaghi.
L’insita eccentricità traspare anche nell’originalità del suo linguaggio forgiato, potremmo dire, a misura di un repertorio – quello della Firenze più poetica e schietta – il cui appeal faceva presa sui colti amatori europei. Un carattere, attraente e per certi versi ammiccante, ben diverso sia dalle robuste e vigorose visioni maremmane di Fattori, sia dalla delicata intimità delle scene domestiche di Lega, che spiega come le sue realistiche impressioni della città, dal tratto stenografico, abbiano goduto maggiore successo rispetto alla produzione degli altri Macchiaioli.
Di padre in figlio, la testimonianza dei luoghi di Firenze e di Toscana
Se il padre aveva narrato la vita serena ed i civili effetti del buongoverno lorenese (sezioni I-II), Telemaco apre le porte della campagna suburbana di Piagentina, intonando un lirico canto a un universo rurale che l’illuminata conduzione economica dell’aristocrazia toscana, nutrita del pensiero empirista inglese, aveva trasformato in una realtà che ieri come oggi incanta l’animo di chi la contempla, come accade a Henry James in Portrait of a Lady: “l’aria era maestosamente tranquilla, e l’immensa distesa del paesaggio, con la nobiltà delle sue linee, e le colture simili a giardini, le vallate feconde, le colline delicatamente cesellate e le abitazioni così squisitamente umane, tutto giaceva davanti a loro con una grazia classica e una splendente armonia” (sezione III).
La peculiarità di Firenze, come ben documenta la mostra, è quella di mantenere inalterato il fascino man mano che trasforma la propria struttura urbana, per cui dopo la stagione di Piagentina, l’elezione a Capitale del Regno porta con sé il vento della modernità, che inizia a spirare tra gli austeri palazzi e le antiche vie medievali, e la città diventa il centro indiscusso della vita mondana e politica nazionale, riflessa nelle vivaci e smaglianti narrazioni pittoriche di Signorini e dei giovani artisti più talentuosi, come Ruggero Panerai, i fratelli Francesco e Luigi Gioli e Adolfo Tommasi (sezione IV).
Telemaco: un opinion maker ante litteram
Al governo dell’Italia unita rimarranno per lungo tempo i liberali fiorentini, inizialmente guidati dal presidente del Consiglio Ricasoli, e oltre la metà degli azionisti dei gruppi finanziari che dominano l’economia italiana risiedono in città, per cui i salotti diventano vere e proprie ‘succursali del Parlamento’. Telemaco vi si muove con confidenza, la sua presenza è richiesta da personalità del calibro di Luigi Guglielmo Cambray Digny, primo sindaco eletto di Firenze, Emilia Toscanelli Peruzzi, Sidney Sonnino, e non solo perché svolge il ruolo di collegamento culturale con l’Europa, facendo transitare nello studio di piazza Santa Croce l’alta borghesia e la nobiltà, ma anche perché è una voce politica riconosciuta e stimata, un opinion maker diremmo oggi, membro ufficiale del partito radicale democratico fiorentino (sezione V).
La sua arte è infatti sostenuta, oltre che dallo stile impeccabile, da un ethos profondo, da un insieme di valori ispirati agli ideali di democrazia e di progresso, gli unici in grado di alimentare una pittura che, come quella degli Impressionisti da lui ammirati e conosciuti, può dirsi veramente attuale e moderna.
Ciò che infatti colpisce nei quadri frutto dei soggiorni internazionali, durante i quali sempre più amplia le proprie relazioni, è la capacità di focalizzare sulla tela, imprimendovela come su una emulsione fotosensibile, la qualità esatta del momento percettivo otticamente esperito en plein air: per questo una sezione della mostra è dedicata alla ‘scoperta della luce’, con opere che possono dirsi il maggior contributo al rinnovamento in senso realista della pittura italiana (sezione VI).
Il Verismo dai libri alle tele
Interprete autorevole di una poetica che in pittura può dirsi l’unica a raggiungere gli esiti del coevo verismo letterario – ricordiamo che Signorini fu molto amico di Luigi Capuana –, nei quadri aventi a soggetto il Mercato Vecchio e il Ghetto Ebraico, realtà pulsanti di vita autentica e genuina, “sorgente viva di linguaggio usato” come li definì lui stesso, il pittore delinea un affresco della realtà popolare che riesce a traslare sul piano figurativo la mimesi linguistica del vernacolo siciliano operata da Verga nei Malavoglia – edito nel 1881, lo stesso anno dei quadri di cui stiamo parlando – e da Zola nel coniare i modi dell’argot parigino nei romanzi del ciclo dei Rugon Macquart; e a tale proposito si ricorda che Signorini era in contatto con Zola sin dall’incontro nel 1873, e che nel 1886 completa l’acquisizione dei suoi scritti critici con la lettura in lingua originale di Mes Haines.
Scrive ancora Henry James, che con Signorini e altri illustri esponenti della cultura europea, come Herbert Horne e Vernon Lee, faceva parte della Associazione per la difesa di Firenze antica, rievocando
l’immagine della città catturata dal pittore: “La città se ne stava accoccolata nella luce del sole, sulle rive del suo fiume dorato, come il piccolo gioiello che è sempre stata, senza traffici, senza altre industrie che non fossero le manifatture di fermacarte in mosaico o di Cupìdi d’alabastro, con niente altro che il piccolo e stabile patrimonio delle sue memorie medievali, le sue montagne dai colori tenui, le sue chiese e i suoi palazzi, i quadri e le statue”.
È questa l’atmosfera che l’artista ci fa respirare, il sapore irripetibile che ci fa gustare nel trasfondere sulla tela la più palpabile concrezione materica delle vie del centro, dei loro muri umidi, dei loro lastricati lucidi e consunti, e che si può ancora sperimentare aggirandosi nel cuore della città medievale a est dell’attuale piazza della Repubblica; e lo fa con una pennellata intrisa di colore, di succhi cromatici rarefatti da una sorta di pulviscolo luminoso, di velatura ora grigia, ora dorata (sezione VII).
La ricerca delle variazioni di luce e atmosfera
Signorini, sempre alla ricerca di climi ottici in grado di stimolarne l’occhio ipersensibile alle variazioni di luce e atmosfera, ora che il centro storico è andato demolito pensa di trovare nuova linfa alla sua ispirazione nel guardare all’ampio giro di colli a sfondo della città, in particolare a una località da sempre meta imprescindibile del Grand Tour della colonia angloamericana residente a Firenze: Settignano, il paese sul quale “ai vaporosi oliveti si mescolano solide ville” (H. James), “una conca simile a un grande anfiteatro, tutta balze terrazzate e olivi sfumati” (E. M. Forster).
È toccante assistere al ripiegarsi intimo dell’immaginazione del pittore nel pacato lirismo di un’elegia che ritrova, come ai tempi di Piagentina, la ragione profonda dell’ispirazione nei rilievi di una realtà naturalistica con la quale identificare pienamente il proprio stato d’animo, in dipinti fatti di cielo, luce, variare rapido di atmosfere, nuvole vibranti di pioggia, mura di fabbricati rurali di cui si rende la friabilità della pietra, il suo puro intarsio minerale, accordando il battito interno della Natura – il pulsare del Vero, come lo chiamavano i Macchiaioli –, alle intermittenze segrete del cuore (sezione VIII).
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